EXCALIBUR 154 - maggio 2023
in questo numero

Ancora sui migranti

Un altro bel libro che cerca di chiarirci le idee

di Angelo Marongiu
verso la salvezza con ogni mezzo
Sopra: verso la salvezza con ogni mezzo
Sotto: Kelly M. Greenhill, "Armi di migrazione di massa" (Libreria
Editrice Goriziana, 2017, 482 pagine)
<b>Kelly M. Greenhill</b>, 'Armi di migrazione di massa' (Libreria Editrice Goriziana, 2017, 482 pagine)
Ad oggi, 24 maggio 2023, gli sbarchi di migranti in Italia assommano a 46.656, contro i 17.972 del 2022 e i 13.765 del 2021 nello stesso periodo (fonte Ministero dell'Interno).
È un processo inarrestabile che i governi, di qualsiasi colore essi siano, non sono e non sono stati in grado di controllare.
Si continua a parlare di "emergenza" ma, francamente, un fenomeno che imperterrito si ripete più o meno intensamente da innumerevoli anni ha ben poco la caratteristica di emergenza.
Ormai negli ultimi anni è un problema incernierato nella nostra società, con una percezione di pericolo che sale e che scende nelle nostre preoccupazioni, ma sempre presente.
Ed è un problema che ideologicamente divide il nostro paese, in misura maggiore rispetto ad altri paesi, vista la nostra posizione geografica. Con lo "stivale" che si protende nel mare come fosse un invito.
Ci dividiamo così tra i buoni, gli immigrazionisti a ogni costo, coloro che tra ecumenismo cristiano o marxista, propugnano accoglienza illimitata, ma raramente questo afflato amorevole è accompagnato da una qualunque proposta di soluzione per il "dopo accoglienza". Qualcuno si chiede dove saranno gli oltre 46 mila appena arrivati trascorso un anno dal loro sbarco in Italia? O anch'essi si uniranno al mezzo milione di fantasmi senza nome, lavoro, casa che già adesso vagano nelle nostre città? Nessuno ha mai risposto.
Dall'altra parte ci sono coloro che si oppongono - forse giustamente, ma non sempre - ad arrivi incontrollati e non gestiti. Commissari speciali, muri, caccia agli scafisti, incremento delle pene e delle sanzioni, pattugliamenti, respingimenti, rimpatri: sono tutti palliativi inconcludenti che non incidono certamente su un problema apparentemente irrisolvibile.
Certo, nessuno ha la bacchetta magica e non basta fermare o sanzionare qualche troppo volenterosa nave delle Ong per modificare questa realtà.
Intanto paghiamo i costi di queste contraddizioni con un aumento dei disperati e degli sfruttati, con un aumento della nostra insofferenza e indifferenza nei loro confronti e con un crescente sentimento di umanità perduta.
Alcuni economisti e sociologi hanno cercato di analizzare questo problema che - nella sua complessità - presenta diversi aspetti.
Resta un caposaldo nell'analisi delle implicazioni economiche legate all'immigrazione il bellissimo volume di Paul Collier, "Exodus. I tabu dell'immigrazione" (Excalibur n. 110, novembre 2019).
Ribaltando l'abituale ottica con la quale si osserva il fenomeno migratorio, Collier mette in evidenza il costo spesso ignorato e sottovalutato dei paesi che perdono i loro cittadini e i maggiori problemi di chi resta.
Chi abbandona il proprio paese è soprattutto chi ha la forza, fisica ed economica, di fuggire: coloro che restano sono sempre i più deboli e i più poveri, in un paese che spesso perde le sue forze migliori.
Se si lascia un paese poco democratico spesso questo diventa ancora meno democratico (Zimbabwe), abbandonato dalla potenziale élite culturale e politica.
"Exodus" non è un tentativo di farci la morale (l'autore è figlio di immigrati), non è pervaso da nessuna ideologia: è solo il tentativo di illuminare un aspetto spesso trascurato e mettere in evidenza che il vero perdente è il paese che vede fuggire i propri figli.
Ma oltre le scelte dei singoli e dei loro effetti, un altro aspetto spesso trascurato è la componente più squisitamente politica che le migrazioni possono comportare.
È il rischio, definiamolo "bellico", insito negli spostamenti di numerose persone, che diventano un'arma in mano ai governi.
È la tesi sostenuta nella ricerca condotta dalla politologa Kelly M. Greenhill, studiosa e ricercatrice americana della Kennedy School of Government a Harvard, nel suo volume "Armi di migrazione di massa", dal sottotitolo illuminante: "Deportazione, coercizione e politica estera".
Se Collier cerca di mostrare nel suo libro quanto le migrazioni possono essere destabilizzanti a livello economico, la Greenhill nel suo saggio mette in evidenza come esse possono essere utilizzate come strumento politico, in situazioni che sfociano quasi sempre in un "confronto asimmetrico".
È una pratica, a volte nascosta ma spesso evidente, di come un governo debole possa creare un flusso migratorio o utilizzarne uno già esistente per ottenere in modo coercitivo concessioni o vantaggi da un paese più forte, che non potrebbe ottenere in altro modo.
Sono "armi bianche".
La Turchia ha incassato dall'Europa 6 miliardi di euro per "contenere" il flusso migratorio di sfollati soprattutto siriani ospitati nel suo paese, con un accordo che definire "controverso" (anziché un ricatto) è quantomeno ipocrita. Nonostante l'accordo ogni tanto apre il rubinetto delle sue frontiere ai migranti siriani o di altre nazionalità.
La tragedia di Cutro è un esempio della sua "rilassatezza" nei controlli.
Fu preceduto nel 2010 dal cColonnello Gheddafi, che a Roma, davanti a Silvio Berlusconi, illustrò inquietanti scenari conseguenti all'avanzata dell'immigrazione africana. Parlò della Libia come "ponte" privilegiato tra l'Africa e l'Italia. Chiese 5 miliardi perché un domani «l'Europa potrebbe non essere più europea e diventare addirittura nera».
Questa minaccia di Gheddafi fu avanzata anche nel 2004, quando ottenne la revoca delle sanzioni da parte dell'Unione Europea, sfruttando appunto la paura dell'immigrazione e dell'arrivo di masse di rifugiati: un'arma astuta poiché era sufficiente la capacità di poter alimentare, manipolare e sfruttare il flusso migratorio per ottenere dei vantaggi.
Sono passati quasi vent'anni ma noi continuiamo a chiamarla "emergenza".
Questi esempi impallidiscono di fronte a episodi ancora più lontani.
Nel 1979 il presidente Usa Jimmy Carter incontrò il premier cinese Den Xiaoping in uno degli storici incontri che portarono all'apertura alla Cina.
Quando Carter disse che non potevano commerciare liberamente con la Cina finché questa non avesse mostrato maggior rispetto per i diritti umani, Deng chiese se tra questi diritti vi fosse quello di emigrare. Carter assentì. Deng sorrise e disse: «Va bene, allora esattamente quanti Cinesi le piacerebbe avere, signor Presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni? Non c'è problema».
La questione dei diritti umani in Cina uscì rapidamente dall'agenza dei colloqui.
Le migrazioni, volenti o nolenti, sono una delle componenti importanti della politica estera, ma non sono certo uno degli argomenti preferiti di chi gestisce la politica. Non lo era nel secolo scorso e ancora meno in questo, poiché è imbarazzante affrontare un problema derivante dall'uso politico di pressione di fronte al quale ci si sente disarmati.
La straordinarietà della ricerca condotta dalla Greenhill è che essa esamina questi strumenti di pressione dal 1951 al 2016 ed evidenzia con rigore scientifico 75 episodi di migrazioni, 56 dei quali usati specificamente come arma per esercitare una pressione politica su altri stati. In quasi il 60% dei casi con successo.
Tralascia i movimenti del nostro tempo alimentati da guerre, povertà e miseria e analizza le azioni deliberate messe in campo da regimi e governi (deboli), che strategicamente utilizzano la popolazione come strumento di coercizione verso alleati e avversari (più forti).
Nel panorama vastissimo di esempi cita le tre azioni deliberate di Castro (1965, 1980, 1994), quando aprì i suoi porti a chi voleva andare verso gli Stati Uniti, coronate da successi alterni.
Espone le dinamiche messe in atto da Slobodan Milosevic (1998-1999), quando mise in movimento le sue truppe per spingere fuori dal Kosovo quasi 800 mila persone, non solo per fini di pulizia etnica ma soprattutto per destabilizzare i paesi vicini.
Cita la Corea del Nord (1995, 2002 e oltre), che, di fronte alle pressioni della Cina per imbrigliare gli eccessi del suo regime, aprì le sue frontiere verso quel paese. Risultato: nel 2006 la Cina ha eretto una recinzione lungo un cospicuo tratto della sua frontiera.
L'Italia è citata per due episodi (1990 e 1997), quando l'Albania lasciò liberi i suoi cittadini di venire nel nostro paese, con l'obiettivo coronato dal successo di ottenere aiuti militari, credito finanziario e altri tipi di assistenza.
Uno dei paradossi messi in luce da questo libro è come i bersagli delle migrazioni strategiche siano quasi sempre le democrazie liberali, quelle che in genere predicano accoglienza e comprensione.
Circolo vizioso che mostra come facilmente questi paesi diventino le vittime politiche, con in più enormi ripercussioni interne in termini di conflittualità.
Questi Stati messi sotto pressione, scrive la Greenhill, sono costretti a svelare i loro atteggiamenti ipocriti.
È quello che l'autrice definisce "il costo dell'ipocrisia".
I "costi dell'ignoranza e dell'ipocrisia" sono «quei costi politici e simbolici che possono essere inflitti quando c'è una disparità reale o percepita fra l'impegno dichiarato verso i valori liberali da uno Stato o da un leader e un comportamento che talvolta tradisce l'impegno preso6#187;.
È la distanza tra le parole e i fatti.
Mostra la vulnerabilità morale delle democrazie liberali vincolate da innumerevoli trattati internazionali sulla tutela dei migranti e la presenza costante di conflitti interni.
La conclusione è purtroppo pessimistica.
Se ci chiediamo se questi sistemi che hanno codificato impegni per l'accoglienza, l'inserimento e la partecipazione dei migranti, possono non offrire quanto promesso, non si può che rispondere che no, non possono farlo. Il prezzo da pagare sarebbe la loro fine.
Due considerazioni finali.
Tempo fa i nostri Ministri degli Esteri e della Difesa hanno dichiarato che molti migranti arrivano da noi provenienti dalla Libia da aree controllate dal gruppo para-russo Wagner, come se ci fosse un premeditato tentativo di spingere i migranti verso l'Italia al fine di destabilizzarla. Le loro dichiarazioni sono state accolte da scetticismo se non da ironia variamente colorata. Il testo della Greenhill dimostra quanto invece questa pratica sia possibile e perseguita nel mondo.
Ai primi di maggio il Ministro dell'Interno francese Gérard Darmanin ha attaccato la presidente del "Rassemblemant National" Marine Le Pen e la nostra Presidente del Consiglio Meloni accusandole di condividere un "vizio" tipico dell'estrema destra, quello di "mentire alla popolazione" e la Meloni in particolare, dicendo che «non sarebbe in grado di risolvere le questioni migratorie su cui è stata eletta». Ha in parte ragione. La politica migratoria di respingimenti in Francia è decisamente più facile: il buon Melenchon non si scalmana per tale politica e inoltre i Francesi non hanno i nostri khmer rossi, Ong, Cei, Charitas e Santa Sede che, in ogni occasione e in ogni maniera, ci fanno pagare - obtorto collo - il "costo dell'ipocrisia".
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