EXCALIBUR 154 - maggio 2023
in questo numero

Ricordo di Sergio Ramelli

Rivendicare il diritto alla memoria e alla continuità ideale

di Fabio Meloni
la locandina della manifestazione
Sopra: la locandina della manifestazione
Sotto: l'intervento di Fabio Meloni e panoramica del pubblico
l'intervento di <b>Fabio Meloni</b>
panoramica del pubblico
Bisogna avere il coraggio di rivendicare il diritto alla memoria e alla continuità ideale, anche attraverso il ricordo di Sergio Ramelli. Ricordarlo è giusto e doveroso, soprattutto per chi ha militato in quella terribile stagione politica caratterizzata da troppi lutti e troppi dolori. Seppure qualche "benpensante", annidato anche nelle fila della cosiddetta "destra politica", vorrebbe recidere il filo della storia che lega le odierne giovani generazioni che fanno politica a quei giovani che militavano negli anni '70 e '80. Perciò, a Gioventù Nazionale va il merito di aver organizzato l'appuntamento di Cagliari per ricordare Sergio, alimentando la speranza che il testimone del suo ricordo passi nelle mani di altri giovani, come già accaduto con la mia generazione.
Seppure siano oltre venti i caduti di "destra", e tutti meritino il doveroso ricordo, sono soprattutto quattro gli episodi tragici che scandiscono la storia delle volenze contro i militanti del Movimento Sociale Italiano e delle sue organizzazioni giovanili ("Fronte della Gioventù" e "Fuan") e che da anni alimentano i ricordi di diverse generazioni di militanti politici. Tre sono accaduti a Roma: il rogo di Primavalle (nel 1973, alcuni militanti di Potere Operaio diedero fuoco alla casa di un dirigente della seziona missina del quartiere, bruciando vivi due dei suoi figli, Stefano e Virgilio); la strage di Acca Larentia (nel 1978, due militanti del Fronte furono uccisi da un commando comunista mentre uscivano dalla sezione e un terzo fu freddato da un carabiniere durante le proteste che ne seguirono); l'omicidio di Paolo Di Nella (nel 1983, il militante del Fdg fu assassinato mentre affiggeva manifesti; il suo assassinio è considerato l'ultimo omicidio politico di oltre un decennio di violenze).
Ma la storia che possiede un maggiore valore simbolico nell'immaginario dei militanti di qualsiasi generazione è quella di Sergio Ramelli: una storia di militanza, coerenza, fedeltà all'Idea e coraggio che ha portato un ragazzo di appena 18 anni a diventare, suo malgrado, ancora oggi, a ben 48 anni dalla sua morte, simbolo della lotta politica di quegli anni. La sua storia racconta i terribili anni dell'antifascismo militante, quando lo slogan preferito e più urlato nei cortei rossi era «uccidere un fascista non è reato». Con questa certezza gli estremisti di sinistra scorrazzavano in tutta Italia rendendosi protagonisti di efferate azioni contro i militanti di destra. Per capire questa storia è necessario fare uno sforzo, quasi impossibile per le generazioni che si sono avvicinate alla politica negli ultimi decenni. Bisogna calarsi nel clima di quegli anni, quando l'odio politico praticato dall'antifascismo militante era talmente cieco e violento da predicare e praticare l'annientamento fisico dell'avversario, avendo deciso di impedirgli, a qualsiasi costo, l'agibilità politica. Una recrudescenza che si registrò soprattutto nei primi anni '70 in occasione dei successi elettorali del Msi. Proprio in quegli anni, l'antifascismo militante godeva delle più inimmaginabili complicità e coperture di settori importanti della società italiana, nei media e nella scuola, tra i personaggi dello spettacolo e della cultura, nella magistratura e ovviamente nella politica.
Come ha scritto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, nella prefazione del libro di Guido Giraudo, "Una storia che fa ancora paura", in quegli anni «qualche centinaio di ragazzi si contrapponeva alla violenza egemonica di almeno ventimila "compagni", forti della complicità di molti giornali, apparati dello Stato, professori e forze politiche del cosiddetto "arco costituzionale". A cui si aggiungeva l'ignavia di molti sedicenti benpensanti». La Russa, che ha avuto anche il merito di citare Sergio nel suo discorso di insediamento a Palazzo Madama, ovviamente parla di Milano, ma la sproporzione numerica si può riferire a quasi tutte le altre grandi città italiane in quegli anni.
La spiacevole rievocazione dell'antifascismo ricorda, fatte le debite proporzioni, ciò che sta accadendo dopo il risultato elettorale del 25 settembre e la nascita del nuovo Governo. L'antifascismo è diventata la parola chiave per un esame infinito che la sinistra, pesantemente sconfitta, pretende di fare a chi ha ottenuto il consenso popolare. Una pressione tanto intensa da far riecheggiare pericolosamente il fantasma dell'antifascismo militante, che si è sempre nutrito di intense e violente campagne mediatiche e che, in questa stagione, sta trovando ampio spazio nei giornali e in alcune trasmissioni televisive.
Proprio il clima ostile orchestrato dai media è una delle caratteristiche più vergognose della storia di Sergio, sia in occasione dell'aggressione che della sua morte, sia in occasione del suo funerale che del processo ai suoi assassini, celebrato oltre dieci anni dopo, grazie alle casuali rivelazioni di alcuni pentiti delle Brigate Rosse e all'azione coraggiosa di due magistrati, Maurizio Grigo e Guido Salvini.
Gli episodi della sua storia sono noti grazie soprattutto al libro scritto da Giraudo (insieme ad altri tre militanti del Fdg di Monza), ma anche al fumetto "Sergio Ramelli: quando uccidere un fascista non era reato" (editore Ferrogallico), coi disegni di Paola Ramella e i testi di Marco Carucci, e ad altre iniziative, compresa l'opera teatrale di Paolo Bussagli ("Chi ha paura dell'uomo nero?"), che lo scorso 29 aprile è andata in scena a Vicenza grazie a un libero adattamento realizzato da una compagnia teatrale locale e potrebbe finalmente tornare nei teatri d'Italia.
Il tema sulle Brigate Rosse, che scatenò, nell'ignavia di professori e preside, la reazione dei collettivi di sinistra della sua scuola, fino a costringerlo a cambiare istituto. Ciò nonostante, essendo diventato un simbolo da colpire per dare un segnale ai fascisti, fu scelto dai militanti comunisti di Avanguardia Operaia, componenti del servizio d'ordine della Facoltà di Medicina, per una spedizione punitiva sotto casa sua (13 marzo 1975) a colpi di chiave inglese, la famigerata Hazet 36. Il coma in ospedale per 47 giorni fino alla morte (29 aprile 1975) caratterizzati anche da episodi inquietanti (le finestre spalancate per mano di infermieri "infedeli", che verosimilmente gli procurarono le complicanze broncopolmonari che lo portarono alla morte) e lo sfregio del funerale "militarizzato". Il clima giustificazionista e perdonista creatosi a sinistra dieci anni dopo, prima in occasione degli arresti dei suoi assassini e poi del processo, che terminò con la loro inesorabile condanna. Assassini che non erano più i rivoluzionari armati di chiave inglese a caccia di fascisti, ma rispettabili professionisti in giacca e cravatta, improvvisamente pentiti dopo essere stati scoperti e incriminati.
Nella storia di Sergio c'è una figura che si eleva più delle altre e che non va assolutamente dimenticata: Mamma Anita. Una donna schiva, con un carattere forte, con una vita segnata da quel tragico avvenimento. Una vita dedicata a rinverdire la memoria di Sergio e alla ricerca di un atto di giustizia. Mai pronunciò una parola di odio per i carnefici del figlio, neanche quando ebbe l'occasione di poterli guardare in faccia durante il processo. Anita rappresenta la mamma di chiunque abbia militato a destra negli anni '70 e '80. Mamme consapevoli dei rischi che i loro figli potevano correre durante la loro militanza per un'Idea. Preoccupate, ma orgogliose. Una mamma come la mia, che, in occasione della strage di Acca Larentia, ascoltando la notizia al Tg della sera e conoscendo la mia passione per la politica, disse a voce alta «è meglio tenersi lontano da queste cose». Forse, non immaginando che proprio il sacrificio di quei ragazzi sarebbe diventata la scintilla che fece scoccare la mia militanza. Nel libro, Mamma Anita, che non accettò il pentimento assai tardivo di alcuni degli imputati (peraltro, non coloro che lo colpirono materialmente con le chiavi inglesi), manifestato con una lettera dopo il loro arresto, e non accettò neanche il cospicuo risarcimento offerto dagli imputati, ricorda la viltà dei giorni seguenti all'agguato, espressa con scritte sotto casa, telefonate, aggressioni al fratello maggiore di Sergio: «Non hanno avuto pietà per noi nemmeno dopo la sua morte».
Agli assassini dopo l'arresto, invece, arrivarono parole di comprensione anche da Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua: «mi sento solidale al di là di qualunque ricostruzione politica per la semplice ragione che io avrei potuto fare quello che loro hanno fatto, direttamente o indirettamente». Qualche tempo dopo, fu arrestato e condannato come mandante per l'omicidio del commissario Calabresi, ma ancora oggi sproloquia su antifascismo, dà lezioni e concede patenti morali dalle colonne del quotidiano "Il Foglio". La sua solidarietà simboleggia in maniera eloquente quale fosse il clima e l'humus culturale nel quale era maturato l'omicidio di Sergio.
Pe definire meglio il clima e gli assassini può aiutare la descrizione, seppure con linguaggio giuridico-burocratico, che i due magistrati fecero nella relazione del rinvio a giudizio: «In difficoltà nell'accettare pienamente il "lato buio" della loro militanza (e cioè, in sintesi, l'assenza del principio di tolleranza delle idee altrui, anche se molto diverse), gli imputati, che pur hanno ammesso i fatti, seppure portatori di una cultura medio-alta, persone attente e certamente lettori di quotidiani, dimostrano tuttavia un modestissimo grado di comprensione di quanto accadeva a Milano in quegli anni». Oppure la descrizione del pubblico ministero del processo, Maria Luisa Dameno: «persone la cui testa non ragionava più perch?? un giorno decisero di conferirla all'organizzazione che pensava e decideva per loro».
Tornando ai giorni nostri, un sano scetticismo mi porta a non condividere pienamente l'entusiasmo di chi ritiene che il clima sia finalmente cambiato. Basterebbe riflettere sulla manifestazione di protesta che hanno inscenato alcuni sindacalisti, insieme all'immarcescibile Anpi, in occasione della visita del sottosegretario dell'Istruzione, Paola Frassinetti, all'Istituto Molinari (scuola che frequentava Sergio e che fu costretto ad abbandonare per le violenze subite). Peggio ancora, il fatto che, da anni, il sindaco di Milano, Beppe Sala, partecipa alla cerimonia milanese per commemorare Sergio senza fascia tricolore, come ad affermare, anche visivamente, un distacco dell'Istituzione che rappresenta nei confronti del ricordo di un 18enne ucciso per le sue idee. E dispiace vedere al suo fianco i politici di destra che accettano questo sfregio senza alcun segno di protesta. Oppure la caciara scandalizzata dei media nei confronti della cerimonia del "Presente" che da decenni, secondo la consolidata tradizione della Comunità alla quale Sergio apparteneva con orgoglio e convinzione, ricorda il suo assassinio.
Cagliari ha ricordato più volte Sergio (nel 1997, tra i relatori anche Peppino Articolo, scomparso in questi giorni, che in quegli anni era dirigente del Fuan, e nel 2012), ma l'evento che è rimasto nella memoria è quello del 2002, all'Auditorium Comunale. Un convegno accompagnato dalla rappresentazione teatrale e la consegna al vicesindaco di allora di un migliaio di firme di Cagliaritani per intitolare una strada a Sergio, che, però, non ebbero fortuna e risultarono inutili. Oggi, con l'attuale Amministrazione Comunale, ci sono nuovamente le condizioni per portare a compimento questa promessa, fatta oltre vent'anni fa.
La chiusura è affidata alle significative parole che Nicola Pasetto, mai troppo rimpianto militante veronese, utilizzò, nel 1988, per motivare l'intitolazione a Sergio della prima strada in Italia, in una Verona allora governata dal centrosinistra, che anche Cagliari dovrebbe sottoscrivere: «In nome di una pacificazione nazionale che accomuni in un'unica pietà i morti di un periodo oscuro della nostra storia e come monito alle generazioni future affinch?? simili fatti non debbano più accadere».
tutti i numeri di EXCALIBUR
VICO SAN LUCIFERO