EXCALIBUR 154 - maggio 2023
in questo numero

La riforma della scuola: da sogno giovanile a splendida utopia

Alcune modeste proposte per migliorare la scuola italiana

di Francesco Marcello
si deve a <b>Gabrio Casati</b> la prima riforma strutturale della scuola italiana del 1859
<b>Giovanni Gentile</b>, il filosofo dell'attualismo e della prassi
Sopra: si deve a Gabrio Casati la prima
riforma strutturale della scuola italiana
del 1859 e Giovanni Gentile, il filosofo
dell'attualismo e della prassi
Sotto: Paolo Mieli, "I conti con la storia -
Per capire il nostro tempo"
<b>Paolo Mieli</b>, 'I conti con la storia - Per capire il nostro tempo'
Da decenni la scuola italiana è in una situazione di inadeguatezza palese. La rassegnazione è il sentimento più diffuso e le promesse elettorali appaiono, a ogni tornata, pateticamente prive di reale volontà di riscatto.
La riforma della scuola è oramai da considerare un'utopia? Tutti i tentativi compiuti, a prescindere dalla correttezza dei rimedi, erano carenti soprattutto in un punto: le risorse finanziarie. Tentare di riformare la scuola partendo dal taglio dei fondi è una evidente contraddizione. La sensazione di una meta irraggiungibile è oltremodo rinforzata da una constatazione: la riforma del sistema formativo non può obbedire alla logica di una serie di leggi approvate a maggioranza, per quanto qualificata essa sia. In questo modo, infatti, si corre il rischio che ogni nuovo governo ridisegni la "sua scuola", creando nel medio e lungo termine un danno incalcolabile. La scuola andrebbe riformata con una maggioranza ben più ampia di quella disponibile per le altre leggi, ovviamente questa considerazione aumenta il senso di sconforto e rafforza l'idea di un'eterna utopia. Sono molteplici i motivi di questo malessere cronico, la scuola con i suoi professionisti si difende strenuamente ma si scontra sistematicamente con l'incapacità o l'impossibilità di agire dei politici, con l'instabilità dei governi e con la mancanza di risorse. L'attuale esecutivo di destra-centro è, come tutti quelli che lo hanno preceduto, destinato all'irrilevanza in tema di scuola. Chi scrive ha insegnato nella scuola di primo e secondo grado, primarie comprese, per più di quarant'anni e come docente a contratto in diverse università italiane. Ha inoltre fatto parte, negli anni '90, del team di docenti nazionali, reclutato dall'allora Mpi, per realizzare il Piano di Aggiornamento Nazionale degli insegnanti della scuola secondaria di primo grado. È una precisazione che ritengo doverosa, per far comprendere a chi legge che i contesti formativi mi sono abbastanza familiari. Scuola e società sono due facce della stessa medaglia, questa semplice constatazione non è sempre evidente a tutti. La scuola, da quando esiste l'obbligo accoglie, in tempi e ruoli differenti, il 100% della popolazione. Terminati gli studi si è coinvolti nella scuola come genitori o come nonni. È incomprensibile, autolesionista e del tutto priva di fondamento la visione di una scuola "roccaforte" della sinistra, come spesso viene definita da alcuni politici di destra. È senz'altro vero che i "boomer" sessantottini nostalgici della rivoluzione perduta sono tra i più rumorosi, ma non è altrettanto vero che siano anche numerosi. Rappresentano al contrario un'esigua minoranza, oramai quasi completamente pensionata e che comunque non ha mai inciso in modo significativo neppure all'interno del proprio istituto.
La scuola italiana storicamente ha avuto come obiettivo prioritario la lotta all'analfabetismo, che con tenacia ha iniziato a perseguire fin dalla Legge Casati del 1859, approvata dal Regno di Sardegna. La riforma successiva, che porta il nome di Michele Coppino, esponente della sinistra storica, varata nel 1877, prolungò la durata delle elementari fino a 5 anni e introdusse l'obbligo scolastico fino a tutto il primo triennio. L'obbligo scolastico fu ulteriormente rafforzato, fino al dodicesimo anno di età, dal liberale Vittorio Emanuele Orlando con la legge del 1904. Orlando istituì anche un "corso popolare" formato dalle classi quinta e sesta, che si inseriva subito dopo il quinquennio elementare. Impose ai comuni di istituire scuole almeno fino alla quarta classe, nonché di assistere gli alunni più poveri, prevedendo un intervento statale per i comuni con bilanci modesti. La Legge Daneo-Credaro (4 giugno 1911) trasformò in statale la scuola elementare, fino ad allora gestita dai comuni, e poneva a carico dello Stato il pagamento degli stipendi dei maestri, così da poter regolamentare meglio l'obbligo anche in quei comuni i cui bilanci non avevano consentito una efficiente organizzazione.
Arriviamo quindi alla riforma di Giovanni Gentile, concepita esattamente un secolo fa dal filosofo di Castelvetrano. L'impronta della riforma Gentile è palpabile anche nella scuola attuale, nonostante la società italiana, in un secolo ricchissimo di cambiamenti, caratterizzato da grandi conquiste tecnologiche, sia profondamente mutata.
La riforma Gentile, che Mussolini propagandisticamente definì «la più fascista delle riforme», prevedeva cinque anni di scuola elementare per tutti gli aventi diritto, con iscrizioni in base all'anno di nascita. Aveva scansione 3+2, preceduta da tre anni di scuola materna e seguita da un grado successivo: la scuola media inferiore, con diversi sbocchi, seguita a sua volta dalla scuola media superiore, che prevedeva tre anni per il liceo classico (preceduti da un biennio, il ginnasio, concepito come un prolungamento speciale della scuola media), quattro per il liceo scientifico, tre o quattro anni per i corsi superiori dell'istituto tecnico, dell'istituto magistrale e dei conservatori musicali.
Le scuole medie acquisivano un sistema a "doppio canale", il primo dei quali consentiva, o meglio impegnava, il giovane al proseguimento degli studi superiori per ottenere un titolo valido. Per accedere a questo canale lo studente doveva superare uno specifico esame di cultura generale. Un altro canale immetteva direttamente lo studente, dopo tre anni di corso, nel mondo del lavoro e non consentiva il proseguimento degli studi. La riforma Gentile portava l'obbligo scolastico a 14 anni di età. Giovanni Gentile, il "filosofo dell'attualismo", concepiva lo Spirito come «in grado di pensare la realtà generando ciò che esiste: lo Spirito è qualcosa di unico e indivisibile».
Gentile, criticando e superando Hegel, portò a compimento l'idealismo europeo. Riteneva che la vera filosofia fosse da identificare nella pedagogia. Cosa resta oggi dell'eredità morale e filosofica di Gentile? Temo purtroppo che non ci sia molto, un po' per faziosità, molto per superficialità, che in fondo sono la stessa cosa. È triste constatare che l'assassinio inutile di Gentile non ha generato alcun moto di ribellione, neppure postumo, verso un regolamento di conti che fu solo barbarie. Nel caso di Gentile pedagogo-filosofo è opportuno ricordare che le sue tesi sull'educazione erano note ben prima della marcia su Roma ("La riforma sull'educazione", 1920).
Paolo Mieli, nel suo "I conti con la Storia - Per capire il nostro tempo" (Rizzoli, 2013), racconta alcuni episodi poco noti della vita di Gentile, il ritratto che emerge è quello di un uomo che, dopo le leggi razziali del 1938, cercò di spendere la sua posizione di privilegio per aiutare diversi colleghi ebrei. A documentarlo per prima fu Rosella Faraone nel libro "Giovanni Gentile e la questione ebraica". Il filosofo, che nel 1944 fu ucciso dai Gap per la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, si era mosso a favore di Paul Oskar Kristeller, per salvare il quale si era rivolto direttamente a Mussolini. Si era impegnato anche per Rodolfo Mondolfo, Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer, Isacco Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabrielli sposata a un Ebreo.
Secondo Gentile l'educazione si basa sulla dualità "educatore-educando". La scuola è per lui crogiolo di libertà: «la scuola senza libertà è scuola senza vita».
Da studente prima e da docente in seguito, ho cercato di praticare "sul campo" questo messaggio, in questa affermazione vi è la vera anima dell'insegnamento, è come una luce che avvolge simultaneamente le intelligenze del docente e del discente. Una scintilla improvvisa nel buio, che genera dialogo, empatia allo stato puro. In tutta onestà spesso rifletto su come Gentile abbia potuto conciliare quel paradigma di grande valore morale e di onestà intellettuale con una scuola che in tanti altri momenti si è allontanata da quell'anelito di libertà. Penso ai Patti Lateranensi, che trasformarono una scuola tendenzialmente laica in una istituzione clericalizzata, tenuto conto soprattutto del fatto che Gentile attribuiva grande importanza alla cultura religiosa, che però a suo parere doveva essere sviluppata in una scuola laica. Probabilmente il Concordato fu l'inizio del declino del pedagogista Gentile.
Le basi che Gentile pose nel delineare il rapporto tra docente e discente sono ancora attualissime in una scuola dove la figura dell'insegnante, complice la cosiddetta "cultura social", è continuamente messa in discussione.
La scuola del secondo dopoguerra, quella che abbiamo un po' tutti ben impressa nella memoria, è la scuola politicizzata e sindacalizzata, che, a partire dall'inizio degli anni settanta, è andata via via perdendo la propria autonomia culturale e la propria autorevolezza. Sono molte le sigle sindacali attive nel comparto scuola, le ultime stime parlano di cinque organizzazioni che superano la soglia del 5% di rappresentatività: la Fl-Cgil, che ha la percentuale più alta di adesioni, la Cisl e a seguire Snals, Uil, Gilda, Anief e Cobas. Il predomino della Cgil non deve trarre in inganno, i maggiori consensi questo sindacato li ha sempre trovati nelle fila del personale ausiliario, fondamentale nel funzionamento degli istituti ma certamente non altrettanto decisivo nei processi di formazione. I Cobas confermano la nostra affermazione precedente relativa alla matrice sessantottina: sono molto attivi e "rumorosi" ma non hanno un vasto consenso. Va inoltre segnalato il fatto che, almeno nei primissimi anni, la galassia Cobas comprendeva docenti di svariati orientamenti politici (destra inclusa), si trattava di insegnanti poco attratti dal sindacalismo confederale, considerato complice dell'immobilismo dei governi che si sono succeduti. Aggiungiamo inoltre che la visione del sindacato da parte della classe insegnante è di tipo utilitaristico: risolvere contenziosi e presentare istanze. In sostanza, più che nel sindacato il docente ha sempre cercato un Caf utile per affrontare la burocrazia amministrativa a cui la categoria è sempre stata particolarmente allergica. È evidente che, per un sindacato ben organizzato, capillare sul territorio e con rappresentanti territoriali che interagiscono da tempo con i vertici istituzionali, come appunto la Cgil, sia relativamente facile catturare consensi.
Detto questo deve essere superata l'idea che le aule scolastiche siano dei "centri sociali" dove insegnanti "comunisti" indottrinano i nostri giovani. Certo ci sono anche quelli che pensano di poterlo fare, ma si tratta di numeri irrilevanti. La maggior parte dei docenti, qualunque sia il loro credo ideologico, hanno un comportamento deontologicamente corretto e non manifestano ai ragazzi le proprie scelte politiche. Queste premesse, e le critiche fin qui espresse, possono avere senso solo se ad esse seguono delle proposte. È un compito ingrato perché esiste ragionevolmente il rischio di rimanere inascoltati, ma senza questa speranza, ora che finalmente c'è una destra di governo, penso che sarebbe meglio tacere.
I ricordi di ciascuno di noi, quando riavvolgiamo il nastro del tempo e ci rivediamo sui banchi di scuola, sono inevitabilmente legati all'azione di ciascuno dei nostri docenti. Capita spesso che alcuni insegnanti molto popolari sul momento venissero smascherati in seguito. Analogamente quelli più insopportabili spesso li abbiamo rivalutati da adulti. È una considerazione che ribadisce ciò che nessuna riforma può cambiare: c'è scuola dove c'è un maestro. Questo vuol dire inevitabilmente che migliorare la scuola significa soprattutto garantire che la classe insegnante sia di qualità e io penso purtroppo che in buona parte attualmente non lo sia. È un'affermazione pericolosa che certamente non può giustificare la deriva violenta che genitori e alunni, per fortuna casi isolati, assumono verso i docenti.
Si discute spesso sull'utilità di inserire nei curricula scolastici figure professionali di supporto, lo psicologo, ad esempio, viene invocato da più parti e da molto tempo. Fino ad oggi si è affrontato il problema inserendo questa professionalità attraverso progetti regolamentati in regime di autonomia dalle singole scuole. La recente pandemia ha messo in evidenza un disagio giovanile diffuso che tuttavia era preesistente e rientra nelle problematiche più generali dell'adolescenza e della preadolescenza. Qualunque apporto professionale qualificato può essere utile alla causa ma deve ruotare attorno alla "regia" dei docenti, se il docente è debole nessuna "pezza" può servire a colmare le sue lacune. Lo stesso discorso vale per l'ipotesi del "tempo pieno", a parte le lacune strutturali della maggior parte delle scuole, che non dispongono di un servizio mensa, stare più tempo in una "zona protetta" come la scuola può essere una mossa vincente, ma se la scuola non è di qualità, soprattutto per quanto riguarda la professionalità dei propri operatori, il tempo pieno può trasformarsi in un boomerang: più tempo lasciamo i giovani in un luogo privo di autorevolezza e di contenuti educativi, peggiore sarà il risultato finale.
La scuola che oggi conosciamo non ha come obiettivo l'attitudine al ragionamento, mostra ricorrentemente un ascolto distratto da parte dei docenti nei confronti degli alunni. Questi ultimi devono conquistare la loro libertà anziché averne diritto in principio. Tutto questo è il risultato di una classe docente impreparata e non selezionata. La scuola di massa non ha saputo e non ha voluto porsi al servizio del sapere nella prospettiva di una crescita umana e culturale che valesse per il futuro. Insegnare è ormai un mestiere come tanti, serve ad alleviare statisticamente il tasso di disoccupazione. Il tradimento finale sta nel sottopagare e abbandonare gli insegnanti, nel conteggiare la loro missione in termini di ore in presenza, con stipendi poco dignitosi, inferiori a qualunque altro stato europeo, senza considerare gli anni di studio precedenti e successivi all'assunzione, la mole abnorme di lavoro sommerso, i fine settimana trascorsi a programmare l'attività per i giorni seguenti e a correggere elaborati. Azioni che negli ultimi anni si sono spostate dal registro cartaceo a quello digitale, richiedendo nuove competenze, costringendo i docenti a impiegare le ore pomeridiane, oltre che nelle riunioni dei vari consigli e dipartimenti, anche nelle risposte alle email dei genitori, il più delle volte espresse con toni pacati ma talvolta con aggressività e nessun rispetto per il ruolo. Non c'è dubbio però che una scuola che vuole privilegiare il merito, deve innanzitutto avere docenti che meritano di essere tali. Questo presupposto è soddisfatto se accedono all'insegnamento persone che hanno, in modo spiccato, quattro caratteristiche peculiari:
- grande motivazione a trasmettere, dialogare e interagire,
- predisposizione allo studio e all'auto aggiornamento ricorrente,
- sapersi mettere in discussione,
- saper andare oltre le prime impressioni, saper motivare, comprendere profondamente le posizioni e le difficoltà dei propri allievi (empatia).
Si tratta di competenze richieste in molti altri ambiti professionali, nel management aziendale e nel coaching sportivo ad esempio, eppure il docente che inizia il suo percorso non ha mai approfondito queste aree tematiche e non viene selezionato su queste basi. Aggiungendo a tutto ciò quel che abbiamo già rilevato, ovvero il fatto che la retribuzione media del docente italiano è tra le più basse d'Europa, il risultato è inevitabile: l'attrattiva esercitata dalla scuola è sempre il risultato di un piano B per quasi tutti gli aspiranti e non è neppure un piano C per i più bravi.
Il discorso riguarda anche la scuola primaria, mantenere il giusto equilibrio tra rispetto delle regole e sviluppo della creatività, è un compito che richiede grandissime capacità professionali da parte degli educatori. La ricerca scientifica sui modelli didattici ha da tempo evidenziato nella capacità di interpretare differenti stili d'insegnamento, una competenza chiave per i docenti, in special modo nelle prime fasce d'età. I metodi deduttivi, quelli più prossimi agli stili di conduzione direttivi, devono essere saggiamente modulati dalle maestre, fino a trasformare l'approccio didattico in una strategia tipicamente induttiva dove la "libera esplorazione" e la "scoperta guidata", senza sconfinare nel "lasser faire", diventano elementi qualitativi imprescindibili del processo educativo.
La scuola secondaria di secondo grado degli ultimi lustri si è data come obiettivo la creazione di un "ponte" con il mondo del lavoro e delle università. Inizialmente il percorso era denominato Alternanza Scuola Lavoro (Asl), oggi ha una denominazione più criptica: "Percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento" (Pcto). In linea di massima è una prospettiva legittima, anche se non andrebbe vista come una priorità assoluta, obbedendo a un assioma improbabile: "la scuola funziona solo se crea occupazione o se una grande percentuale di studenti completa gli studi universitari". Sono tanti i fattori che concorrono a creare un terreno fertile per il successo futuro degli studenti e le condizioni familiari (non solo quelle economiche) sono troppo preponderanti per attribuire alla scuola tutta la responsabilità positiva o negativa rispetto al percorso post-diploma degli studenti.
La completezza e l'efficacia della missione formativa si basano dunque su tre pilastri fondamentali, il più importante dei quali è il docente: la sua motivazione, la sua preparazione e la sua professionalità sono il fulcro di tutta l'azione educativa. Sono evidentemente importanti i programmi e i contenuti che necessitano di un continuo aggiornamento, soprattutto negli indirizzi tecnici. Anche in questo caso, però, sarà fondamentale l'azione modulatrice dei docenti che dovranno contestualizzarli e renderli appetibili. Il rapporto con l'università e con il mondo del lavoro è il terzo e ultimo anello, fino ad oggi si è limitato a una sorta di esposizione fieristica: lo studente liceale o degli istituti tecnici visita i dipartimenti universitari o i vari laboratori aziendali immaginando il proprio futuro in uno di quei contesti. A parte qualche rara eccezione, non c'è nessuna interazione, nessuna collaborazione, nessun reale interesse da parte di chi accoglie i ragazzi. Un programma serio di orientamento per gli studenti delle scuole superiori, dovrebbe essere incentivato dal governo con azioni di formazione per i tutor aziendali e sgravi fiscali per le imprese che si impegnano a garantire, a questa azione, la necessaria qualità.
Solo in questo modo si può evitare che gli stage aziendali si trasformino in temporanei e poco edificanti parcheggi, senza neppure un tutor degno di tale nome che si occupi di guidare gli alunni, i quali vengono destinati a mansioni marginali e poco costruttive. Da questa improvvisazione al veder aumentare la lista delle morti bianche sul lavoro, prima ancora di iniziare a lavorare, il passo purtroppo è breve.
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