Sopra: Paul Collier, "Exodus - I Tabu dell'immigrazione" (Laterza, 2016)
Sotto: si fermeranno mai?
È di qualche settimana fa il solito contrasto tra l'ex Ministro dell'interno Matteo Salvini e l'attuale Ministro dell'interno Luciana Lamorgese: oggetto della diatriba il numero dei migranti. Quanti ne erano sbarcati in più o in meno nelle diverse gestioni del dicastero, quanti morti, quanti rimpatri, quanti respinti.
Come sempre, il problema importantissimo dei migranti che arrivano in Italia è stato ridotto a una mera questione numerica. Nessuno che si preoccupi non del numero (in fin dei conti non siamo "invasi") ma di chi arriva in Italia, se e come si inserisce, quali sono le sue intenzioni e aspettative.
E allora ho ripescato dalla libreria un libro vecchio di qualche anno, ma dall'attualità più che stringente: "Exodus. I Tabu dell'immigrazione" di Paul Collier.
Paul Collier, economista inglese di origine tedesca, è un esperto di economie africane e professore di Economia e Politiche pubbliche all'Università di Oxford.
In questo volume egli affronta il problema legato all'immigrazione ponendosi in una posizione non convenzionale rispetto alle diverse prospettive correnti: da una parte i cosiddetti progressisti, secondo i quali nell'immigrazione non esistono aspetti negativi ma un reciproco accrescimento culturale, e dall'altra coloro che avversano il fenomeno e che quindi sono automaticamente accusati di arretratezza culturale.
Egli non si pone il problema di dove schierarsi: fa parlare i fatti. La sua analisi - fredda e logica - esamina la questione complessiva dell'immigrazione esclusivamente sotto l'aspetto socio-economico e per questo motivo si differenzia dagli altri testi sull'argomento. Nella sua ricerca egli esamina il fenomeno migratorio dettato esclusivamente da motivi economici: coloro che fuggono da guerre, carestie e persecuzioni meritano ovviamente un'analisi separata.
Inizialmente sostiene che le posizioni morali sull'immigrazione si intrecciano confusamente con quelle sulla povertà, sul nazionalismo e sul razzismo e quindi le opinioni sui diritti dei migranti sono influenzate dai sensi di colpa per gli errori commessi nel passato.
Afferma inoltre che se è doveroso aiutare le persone molto povere che vivono in altri paesi consentendo ad alcune di loro di trasferirsi in paesi più ricchi, tuttavia questo non può sottintendere l'obbligo generalizzato di autorizzare la libera circolazione da un paese all'altro. Questo per una serie di motivi: sociali, culturali ed economici.
Collier definisce "modello sociale" l'insieme delle istituzioni, norme, regole e organizzazione di un paese e sostiene che la ricchezza dei paesi ad alto reddito poggia su queste basi. I migranti sono essenzialmente persone che fuggono da paesi i cui "modelli sociali" si sono rivelati inadeguati. In pratica, le culture delle società povere, così come le loro istituzioni e la loro organizzazione, sono la causa principale della povertà e innescano quindi il fenomeno dell'emigrazione.
È il sommesso affondo contro le facili affermazioni in difesa del multiculturalismo: poiché se le persone fuggono da una cultura all'altra in ricerca di benessere, allora non tutte le culture si equivalgono.
Introduce poi un altro concetto di estrema importanza per la sua esposizione, affermando che nel fenomeno migratorio sono coinvolti tre diversi gruppi: i migranti, le popolazioni che ricevono i migranti e le persone che rimangono nei paesi di provenienza dei migranti.
Se l'origine delle migrazioni nasce dal fatto che il divario di reddito tra i paesi poveri e quelli ricchi è mostruoso, la migrazione da un tipo di paese a un altro non potrà ridurre in maniera significativa questo divario poiché le sue ricadute sono troppo modeste.
Semplificando i concetti possiamo affermare che nei paesi di arrivo delle migrazioni si creano tre gruppi di persone: i cittadini del paese di arrivo, i migranti che si sono integrati e i migranti che non si sono integrati, cioè la cosiddetta "diaspora".
La persistenza dei movimenti migratori non potrà che favorire la crescita delle "diaspore" e - con un divario di reddito tra i paesi che continuerà a rimanere alto - aumenterà solo la spinta a nuova migrazione.
La conseguenza è che - ferme restando le attuali politiche - assisteremo all'accelerazione della migrazione dai paesi poveri a quelli ricchi, senza trovare un punto di equilibrio tra incremento della "diaspora" e aumento degli immigrati che riescono a integrarsi nei nuovi paesi. Tenendo bene in evidenza questi fatti centrali, l'autore analizza gli impatti economici sui diversi gruppi.
I migranti traggono i migliori benefici dal processo migratorio: il passaggio da un paese povero a uno ricco non può che migliorare il loro "status". Non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto per un diverso modello culturale, sociale e organizzativo che fa ricadere anche su di loro i benefici di un welfare destinato alle popolazioni del paese ospitante.
Per quanto riguarda le popolazioni autoctone l'effetto delle migrazioni dipende essenzialmente dal loro livello di reddito e "status" nel mondo del lavoro.
Per assurdo - ma non troppo - l'immigrazione di manodopera non qualificata dovrebbe provocare la diminuzione dei salari e quindi l'aumento del rendimento del capitale: la conseguenza sarebbe che i lavoratori autoctoni ci rimetterebbero mentre i ricchi ci guadagnerebbero.
Altra conseguenza - non meno importante e spesso ignorata - è che lo stock di capitale pubblico esistente (scuole, ospedali, strade, alloggi) sarebbe condiviso da un maggior numero di persone a parità di risorse statali stanziate.
Il reddito delle persone povere deriva dal lavoro e non dal possesso di capitale e il loro benessere deriva soprattutto dai servizi forniti dal governo. In base ai princìpi dell'economia quindi l'immigrazione reca vantaggi alla fascia più abbiente della popolazione autoctona, mentre peggiora le condizioni delle fasce più povere.
Infine, per quanto riguarda i paesi da cui origina la migrazione, le loro popolazioni sono probabilmente le più danneggiate, almeno quando il fenomeno è rilevante e in accelerazione e il paese di provenienza è piccolo.
Di recente il governo del Ghana ha lanciato un appello ai suoi cittadini più preparati che sono andati a cercare fortuna all'estero perché rientrino in patria e possano così contribuire alla crescita del loro paese.
Di solito i migranti provengono dal ceto più benestante del loro paese in quanto i più poveri non possono permettersi di sostenere i costi della migrazione (ecco le catenine e gli smartphone dei migranti nell'omelia di don Piacentini a Sora, insultato e sbeffeggiato). Le persone più povere sono quelle che restano a casa ed è questa la sfida morale da affrontare e un atteggiamento arrendevole nei confronti delle migrazioni non fa che accrescere questa ingiustizia.
La migrazione da paesi come la Liberia, Sierra Leone, Malawi, Zimbabwe, Zambia, Mozambico, Afghanistan, ma anche Ghana, Uganda, Vietnam (paesi del cosiddetto "ultimo miliardo") hanno visto la potenziale classe dirigente e imprenditoriale abbandonare il loro paese per cercare all'estero un futuro diverso.
Una mitigazione - ma solo dal punto di vista economico - è dato dalle rimesse dei migranti dai paesi ricchi a quelli poveri: si tratta di circa 500 miliardi di dollari, ma tale cifra va a diminuire con il passare del tempo di permanenza all'estero e cessa con la fase di ricongiungimento familiare. Qui si inserisce un altro aspetto spesso dimenticato da molti. Maggiore è la distanza culturale tra il paese di provenienza dell'immigrazione rispetto al paese ricevente (in termini di istituzioni politiche, lingua, religione) e maggiore è la possibilità che gli immigrati non si integrino nella popolazione autoctona (e si alimenta la cosiddetta "diaspora"). Quindi si creano delle "isole" all'interno dei paesi ospitanti: l'Europa è piena di tali isole. Basti pensare a città come Londra, Parigi, Berlino, Bruxelles o le nostre Torino e Milano.
Questo fatto accresce il fenomeno dei figli dei migranti (le seconde generazioni) cresciute in un ambiente che ricalca quello del paese originario della famiglia ed è completamente estraneo all'ambiente del paese nel quale vivono. Sono quindi più restii dei loro padri a integrarsi, quasi a voler affermare una propria identità ben distinta dall'identità nazionale dominante. La maggior parte degli episodi di violenza estrema in Europa trae origine da questo bacino estremista.
Il paradosso è che l'insieme della cosiddetta cultura del multiculturalismo e i sistemi di previdenza sociale troppo generosi rallentano l'integrazione. Le numerose leggi antidiscriminazione e le corsie privilegiate spesso concesse loro contribuiscono ad aumentare questo distacco, poiché gli immigrati preferiscono restare nella loro nicchia di privilegi esclusivi.
In pratica chi non si integra rifiuta un "modello sociale" vincente per mantenere il "modello sociale" responsabile della loro povertà. Questo è il panorama osservato attraverso strumenti sociali ed economici: più arduo diventa invece trovare soluzioni al problema dell'immigrazione. Questo sarebbe certamente meno complesso se ci fosse una "diaspora" costante: cioè a una quota di migranti in ingresso corrispondesse analoga quota di migranti che si integrano e che assimilano lingua e cultura del paese che li ospita.
Ma non è così. Ovunque le "diaspore" sono in preoccupante aumento e l'elemento religioso (in particolare islamico) è un fattore determinante per la mancata integrazione.
Dalle considerazioni fatte finora - sui pericoli della libera circolazione, sull'origine delle differenze di reddito, sulle conseguenze nei paesi poveri che si spopolano delle persone più preparate e sui pericoli delle diversità culturali soprattutto se religiose - emerge la necessità di individuare delle misure che in qualche modo impediscano una accelerazione del fenomeno migratorio che col tempo provocherebbe una espansione infinita e la deflagrazione dei modelli sociali più evoluti.
Collins ipotizza un pacchetto di misure che prevedono: la fissazione di quote di ingresso, la selezione dei migranti, l'integrazione delle "diaspore" e la regolarizzazione dei migranti irregolari.
Sembrano misure di stampo xenofobo e razzista, ma, a ben guardare, sono solo dettate dal buon senso.
Selezionare, limitare, integrare e regolarizzare sono parte integrante e inscindibile del complesso di misure da adottare e che sono, in definitiva, un compromesso con un fenomeno che marcherà il nostro tempo e che - se non arginato - creerà squilibri globali finora inimmaginati.
Una lezione per i nostri "buonisti", per l'Europa, per Bergoglio e per il nostro inquilino del Viminale.