Lo stabilimento Ilva di Taranto
«
Chi ha del ferro ha del pane» fu il celebre motto pronunciato dal socialista utopista e rivoluzionario Augusto Blanqui.
Il motto ebbe varie interpretazioni, ma a noi pare che lo si possa adattare alla storia della siderurgia in Italia e all'attuale vicenda dello stabilimento dell'Ilva di Taranto.
Che sia esistito e esista tutt'ora un nesso tra lo sviluppo dell'industria siderurgica e la politica di potenza dell'Italia è un dato assodato. Il primo grande stabilimento siderurgico sorse in Italia, a Terni, nel 1884, non certo per esigenze economiche, ma perché così volle il ministero della marina che preferiva fare a meno dell'acciaio straniero per le proprie navi da guerra.
Lo stabilimento sorse con garanzia e sorveglianza statale, ma con capitali privati, soprattutto di istituti bancari. Da allora, pur tra alti e bassi, il comparto siderurgico andò sempre più sviluppandosi in un'ottica totalmente privata, sino alla grande crisi degli anni '30, quando lo Stato, con la creazione dell'Iri, rilevò gran parte degli stabilimenti siderurgici, in profonda crisi, risanandoli, accorpandoli in un'unica holding e ponendo al settore mete ambiziose.
Nel dopoguerra, sino agli anni '80, il settore conobbe una crescita esponenziale tanto da fare dell'Italia il maggior produttore d'acciaio d'Europa. Nel 1965 viene inaugurato lo stabilimento di Taranto, il più grande d'Europa. Nel 1982 arriva alla guida dell'Iri Romano Prodi, il quale non trovò di meglio che dare inizio alla liquidazione dell'istituto, cedendo a prezzi stracciati quello che era stato il fior fiore dell'industria italiana. In questa ottica lo stabilimento di Taranto fu ceduto, nel 1995, all'industriale Riva che lo pagò poco meno di 2.500 miliardi su un valore certificato di 4.000.
Dopo le note e tristi vicende l'azienda fu posta all'asta. Parteciparono due cordate. Una italiana supportata anche dalla Cassa Depositi e Prestiti, l'altra franco-indiana. Il progetto migliore fu quello italiano, ma vinsero i franco-indiani: progetto scadente ma offrirono più quattrini.
Adesso tutti si scoprono nazionalisti: chi si azzarda a giustificare la società franco-indiana passa per nemico della patria. L'acciaio deve essere italiano o non è. Non passi lo straniero.
Tardivo rimpianto. Interesse nazionale e politica di potenza non possono denigrarsi o esaltarsi a stagioni alterne: ne va di mezzo la dignità di un intero popolo.