Periodicamente devo risistemare i miei libri. Poco tempo fa nel farlo mi è capitato tra le mani un vecchio libro (il prezzo è espresso ancora in lire): "L'ultimo teorema di Fermat" di Simon Singh e, considerando la passione che il nostro direttore ha per i numeri, ho pensato che raccontare questa avventura matematica poteva essere un argomento interessante.
Anche perché questa storia ha uno snodo cruciale esattamente il 23 giugno 1993, trent'anni fa.
Come in tutte le storie che si rispettano, questa vicenda ha un personaggio che la mette in moto, nel nostro caso il suo nome è Pierre de Fermat, un eroe, Andrew Wiles, e alcuni personaggi che danno colore alla storia.
Cominciamo dal primo: Pierre de Fermat è nato in Francia nell'agosto del 1601 ed è un magistrato che si occupa di matematica (o il contrario, comunque non ha l'hobby della politica o della scrittura di libri di genere come i nostri). Di lui non si conoscono le avventure nei tribunali, ma, fra le altre cose, si sa che scoprì i princìpi della geometria analitica e con Blaise Pascal fu uno dei fondatori della teoria delle probabilità.
Questo signore, leggendo un libro dell'Arithmetica di Diofanto (III-IV secolo avanti Cristo), ragiona sulla più famosa terna pitagorica che ogni studente conosce (almeno spero): in un triangolo rettangolo, la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa.
In parole povere: a
2 + b
2 = c
2, dove "a" e "b" sono i cateti e "c" è l'ipotenusa.
Fermat si chiede: cosa succede con le altre terne nelle quali l'esponente non è 2 ma un numero diverso superiore a 2?
Ha infinite soluzioni come la terna classica con esponente 2?
No, sostiene, non ne ammette nessuna.
È un'affermazione formidabile, affascinante, azzardata, forse, ma intrigante.
Fermat afferma, scrivendolo in latino, che dispone di una magnifica dimostrazione di tale teorema che però non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina.
Il teorema si trasforma così in una congettura, poiché senza dimostrazione non è che un'ipotesi di un matematico certo geniale, ma è solo un'ipotesi.
Pierre de Fermat aveva a volte degli atteggiamenti un po' altezzosi, da snob, tipo "so tutto io", ma era comunque un genio della matematica. E poiché nella sua vita non tornò mai più sull'argomento, si aprono tre possibili strade: o non aveva alcuna soluzione, oppure quella che aveva era sbagliata o infine aveva davvero questa "magnifica soluzione".
Tutti propendono per la seconda ipotesi, supponendo che un'ulteriore analisi del problema lo avesse convinto che la sua dimostrazione non poteva reggere a nessuna prova.
Era il 1637 e la sua "Observatio Domini Petri de Fermat" ha scatenato la fantasia dei matematici che per tre secoli hanno trascorso giorni e notti insonni per risolvere quello che era diventato il problema irrisolvibile per definizione.
Ci hanno provato in tanti. Eulero nel XVIII secolo riuscì a dimostrarlo solo per n = 3; Adrien-Marie Legendre (intorno al 1830) lo dimostrò per n = 5; Sophie Germain, lavorando sulle congetture, scoprì che essa era probabilmente vera per un particolare numero primo (mi manca lo spazio per mostrare la sua ipotesi). Niente di più.
La storia di Sophie Germain (1776-1831) è curiosa. Essa è conosciuta per il suo lavoro nel campo della teoria dei numeri e dell'elasticità. È diventata un'icona del femminismo per la sua lotta contro i pregiudizi sociali e culturali dell'epoca: per numerosi anni fu costretta a usare lo pseudonimo maschile di Antoine-Auguste Le Blanc per pubblicare le sue opere, poiché allora le donne erano escluse dagli ambienti accademici. Riconoscimento che le arrivò dopo anni di lavoro.
Un altro personaggio di questa strana storia è Evariste Galois (1811-1832), anche lui un illuminato della matematica.
Geniale e turbolento (il suo insegnante affermò che era posseduto dal "demone della matematica"), attraversò a causa del suo carattere numerose peripezie. In un manoscritto che affrontava la risoluzione delle equazioni di quinto grado, redatto in tutta fretta durante la notte, mise in chiaro le sue intuizioni. La mattina successiva fu ucciso in un duello.
Quel manoscritto fu studiato dall'eroe della nostra vicenda, Wiles, che vi scoprì il primo tassello della sua dimostrazione.
E ora facciamo un salto fino al XX secolo, non dimenticando quanti, uomini e donne, illuminati da una candela o da lumi a olio o da una lampadina elettrica, hanno trascorso notti insonni ragionando su una congettura del 1637.
Un altro tassello utilizzato da Wiles per arrivare alla sua soluzione fu indirettamente fornito da un giovane matematico giapponese, Yutaka Taniyama (1927-1958).
Insieme a un altro collega, Goto Shimusa, si dedicò a una serie di problemi, congetture e soluzioni su argomenti che in parte erano già stati affrontati e risolti: il Giappone del primo dopoguerra era ancora praticamente fuori dal mondo e i due erano all'oscuro di quel che avveniva altrove.
Ma fra i tanti problemi affrontati vi fu quello noto come "congettura di Shimusa-Taniyama", che i due formularono ma non risolsero se non parzialmente (per chi vuole approfondire sosteneva che "ogni curva ellittica sui razionali può essere parametrizzata in forma modulare").
Andrew Wiles vi riuscì solo nel 1994 e ne utilizzò la dimostrazione parziale come potente strumento per la conferma formale dell'ultimo teorema di Fermat.
Per motivi sconosciuti Taniyama si uccise a 31 anni.
La congettura utilizzata da Wiles mette in relazione due campi matematici lontanissimi tra loro e fu come un ponte che unisce due mondi diversi, aprendo le stesse prospettive di "una stele di Rosetta": avvalora così l'idea che la matematica consiste in isole di conoscenza in un mare di ignoranza. Poi arriva un genio che collega alcune isole e si spalancano orizzonti nuovi.
E ora arriviamo all'eroe di questa storia: Andrew Wiles.
Wiles nacque a Cambridge (ovviamente) nel 1953 ed è stato da subito un ragazzo precoce. Ad appena dieci anni incrociò casualmente la formulazione di Fermat e, vista la semplicità apparente della struttura, si stupì che non vi fosse data soluzione.
Si ripromise che, a tempo debito, avrebbe provato ad affrontare quel problema.
Insegnava negli Stati Uniti, a Princeton, e l'aria che avevano respirato in quell'Università Einstein, Godel, von Neumann parve dargli ispirazione.
Si racconta che per sette lunghi anni abbia dedicato ogni minuto di ogni giorno a combattere contro Pierre de Fermat. Dovette imparare tutta la matematica più moderna e complessa, inventarne di nuova e - cosa più ardita - creare dei raccordi tra mondi lontani tra loro, gettare ponti come quello di Taniyama.
Nel giugno 1993 annunciò tre seminari al Newton Institute di Cambridge senza indicare gli argomenti che avrebbe trattato.
I partecipanti ai primi due seminari intuirono qualcosa e per il terzo seminario, il 23 giugno, l'aula era stracolma di matematici in trepidazione.
Tre lavagne riempite di formule e simboli strani una dietro l'altra e quando la terza era piena, cancellava la prima e continuava, così per due ore.
Non pronunciava una parola e probabilmente molti di coloro che assistettero non capirono ogni passaggio: attesero silenziosi e pazienti perché nessuno, in tre secoli, aveva mai osato scalare quella vetta.
La matematica ha le sue regole: applausi, ovazioni, ma le 200 pagine della sua dimostrazione dovevano essere esaminate.
La commissione, dopo un mese, emise un verdetto negativo: aveva "intuito" che la sua dimostrazione aveva una falla, era sbagliata.
In genere un verdetto del genere significa che sono sbagliate le premesse o le fondamenta teoriche sono fragili. Sempre si fa tabula rasa di tutto e si riparte da zero.
Wiles non si arrese, era convinto del suo lavoro: si rinchiuse per un altro anno, individuò il buco nella dimostrazione e vi pose rimedio. Era il 19 settembre 1994.
Una presentazione di 130 pagine fu sottoposta al vaglio della comunità matematica e fu accettata ufficialmente dall'Unione Matematica Internazionale.
L'ultimo teorema di Fermat era stato risolto.
Noi l'abbiamo incontrato tante volte: nel romanzo "Un uomo" di Oriana Fallaci o ne "La ragazza che giocava col fuoco" di Stieg Larsson o nel "Teorema del pappagallo" di Denis Guedj o in episodi di "Star Trek" o nel film "Indiavolato" o in episodi dei "Simpson" o nel saggio "La biblioteca total" di Jorge Luis Borges.
Il problema risolto da Wiles ha antiche origini greche ed era la vetta himalayana della teoria dei numeri. La matematica rifulge di una incomparabile bellezza estetica, essendo il linguaggio della natura ("Pillole matematiche" di Piergiorgio Odifreddi).
Perché questo due pagine?
Pensiamoci un attimo: una cosa così piccola e apparentemente banale, un "a
2 + b
2 = c
2", nell'universo infinito dei numeri è unica al mondo. Non ne esistono altre simili.
Così come ognuno di noi: apparentemente una piccola cosa, a volte banale, un granellino di sabbia in un universo sconfinato.
Ma unici.