Immigrazione: sì o no?
Sull'immigrazione (seguendo i binari dell'integrazione e del conflitto)
di Toto Sirigu
Immigrazione si, immigrazione no. Dilemma risolvibile, apparentemente, in modo sbrigativo: ognuno se ne stia in casa sua e se proprio ha bisogno di farsi un viaggio, che sia un viaggio di piacere. Così tutte le comunità nazionali di questo mondo sarebbero in grado di vivere e prosperare senza l'assillo in più. Così tutti noi potremo concentrarci, esclusivamente, sulla risoluzione dei conflitti esistenti all'interno delle nostre mura incontaminate. Ma che bello! Ma che sollievo! C'è solo un piccolo problema: ho descritto un mondo che non c'è, un mondo che, grazie a Dio, non ci sarà mai. Tuttavia c'è da qualche parte chi, cavalcando le paure verso lo "straniero", continua a riverniciare quell'ideologia che sforna, in tutte le salse, "la piattaforma della supremazia dell'uomo bianco": lasciamoli pensare e credere quello che vogliono; noi, per intanto, occupiamoci della realtà dinamica della vita.
Attraverso lo slogan "alla ricerca di...", l'uomo, fin dai tempi più antichi, ha sempre cercato nuovi approdi territoriali, con diversa intensità e con diverse forme e modalità ed è sempre riuscito a impostare un certo rapporto con la nuova terra e con la nuova gente. Svoltando verso il terzo millennio non cambia la musica. Cambiano soltanto le parole usate per descrivere questi fenomeni: scafi, scafisti, extracomunitari, ecc..
Ora, rispetto al dilemma iniziale, dobbiamo esprimerci in maniera chiara, sempre che si stia dalla parte di coloro che intendono leggere la realtà per poi governarla e non per subirla, e affermare: "immigrazione sì". È chiaro che se l'Italia fosse un paese "povero" questo tentativo di approfondimento non avrebbe molto senso, ma non è così; gli extracomunitari entrano nel nostro territorio per trovare un lavoro stabile (basta rivolgere uno sguardo all'assorbimento di manodopera extracomunitaria in corso nel nord-Italia), per trovare un lavoro precario (incarnato dalla figura del vuccumprà o dal raccoglitore stagionale di diversi prodotti agricoli), per delinquere (sfruttamento della prostituzione, scippi, rapine e spaccio di droga). Gli extracomunitari entrano in Italia per sfamarsi, cioè per motivi economici, ma inevitabilmente creano una situazione di conflitto rispetto all'equilibrio preesistente. Se è vero che integrazione e conflitto rappresentano il pane quotidiano della vita dell'uomo e se è vero che questa dicotomia è in realtà una ricchezza per la vita dei singoli e dei popoli, dobbiamo individuare, con fermezza, quegli strumenti che, con riferimento allo "straniero", permettano di non superare una certa soglia di conflitto e allo stesso tempo di costruire accanto una discreta misura di integrazione.
Quali gli strumenti? Nel breve periodo si può intervenire con strumenti tecnici: fissare annualmente un tetto massimo (non certo come fa il governo delle sinistre attraverso il balletto delle cifre e le sanatorie frequenti) per i flussi in entrata, investire più denaro per approntare un sistema efficiente di pattugliamento delle nostre infinite coste, facilitare (attraverso un riordino del coordinamento tra le forze dell'ordine) le espulsioni.
È però molto importante intervenire pensando al medio e lungo periodo; in questo caso gli strumenti da utilizzare riguardano il livello culturale e sociale. Poiché noi crediamo non soltanto all'autodeterminazione dei popoli ma pure al loro mantenimento in vita, una seria classe dirigente dovrebbe elaborare un'intelligente politica demografica e proporla al distratto" popolo italico (se poi non funzionerà vuol dire che lasceremo il posto a popoli "più motivati" e ciò non potrà suscitare scandalo più di tanto).
Altro strumento imprescindibile è la politica dell'istruzione primaria (infatti stanno aumentando progressivamente i bambini, figli di extracomunitari, che frequentano le nostre scuole): dalla qualità di questa dipende il superamento del conflitto astratto, cioè legato alla paura per il "diverso" (della serie "è arrivato l'uomo nero"). L'ultimo strumento interno, da prendere in seria considerazione, è quello che attiene alla politica del territorio e più specificamente al problema della vivibilità delle città; se i Sindaci e comunque l'intera classe politica non si occuperanno, da subito, del riassetto territoriale dei medi e grandi comuni italiani, sarà arduo intervenire, poi, per colmare i guasti sociali accumulatisi nel tempo. Insomma, ciò che si deve soprattutto evitare è lasciare crescere le "città-ghetto degli stranieri" nelle "città degli Italiani".
Altro aspetto che va affrontato riguarda il destino dei paesi "poveri" e in questo caso c'entra la dimensione oltre-frontiera della politica, nel senso che diviene indispensabile l'affinamento di strumenti di politica internazionale. Caduti i blocchi politico-militari coagulatisi nel secondo dopoguerra intorno agli Stati Uniti e all'U.R.S.S., è necessario che l'Italia sponsorizzi un nuovo e prestigioso ruolo per l'Europa. L'imperativo categorico dei prossimi anni è la costruzione di un ordine mondiale che non sia più funzionale esclusivamente all'unica superpotenza rimasta oggi in piedi. Solo un diverso equilibrio mondiale, con una rinnovata Europa riscrittrice della Storia, può inaugurare una stagione di relazioni internazionali che affronti i casi più drammatici di povertà e sottosviluppo economico. Non dobbiamo inseguire, su questo versante, le utopie, ma almeno costruiamo, nel tempo, per tanti uomini, donne e bambini, la speranza della certezza di nascere, crescere e rimanere dentro le rispettive comunità, in mezzo ai popoli di appartenenza.
L'obiettivo, quindi, che la nostra nazione, insieme all'Europa, deve perseguire è quello di eliminare, per davvero, il pericolo di uno sradicamento dalla loro Terra di interi popoli. Perciò il risultato sarà centrato quando, dinanzi ai nostri occhi, ci troveremo una quantità sempre maggiore di "extracomunitari" che soggiorneranno nelle nostre città soltanto per piacere, per soddisfare unicamente la loro "fame e sete" di curiosità e conoscenza.