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SPECIALE
Sardi a Salò: Mario Giglio

Le esperienze di Mario Giglio, Sassarese classe 1921

il Dott. <b>Mario Giglio</b>, direttore della Banca Popolare di Sassari
Il Dott. Mario Giglio, direttore della
Banca Popolare di Sassari
«In campo di concentramento, anche se avviliti per la sconfitta, non venne mai a mancare lo spirito patriottico né quello... goliardico. Fu così che, impadronitici di un certo numero di scatole di cartone e di alcune risme di carta ciclostile oltre che di alcune matite copiative viola [...] iniziammo a pubblicare un giornale murale [...], "Il Supplemento" [...]. Venni eletto all'unanimità direttore. Vi erano poi redattori specializzati in una attività o in una battuta di spirito [...]. Vi erano i poeti [...]. Vi era uno che sapeva disegnare aeroplani e conosceva tutti i vari tipi di aerei che ci avevano bombardato e mitragliato [...]. C'era un pittore che faceva caricature e ritratti [...].
La lettera che scrissi al mio comandante, intitolata "Ricordo del mio battaglione", rimase a lungo appesa ai cartoni perché c'era sempre qualcuno che voleva copiarla: anch'io me la copiai su un taccuino che avevo fatto da me [...]. Questo taccuino, su cui invitai diversi redattori a riprodurre in miniatura le loro opere, l'ho sempre conservato religiosamente e sempre lo conserverò
».
Era stato Mario Giglio a scrivere così e, appunto, recuperando i materiali da quelle carte custodite con un'affezione più forte di qualsiasi dottrina, e d'una dottrina comunque cento volte poi passata per il filtro severo eppur indulgente di una consapevolezza civile più matura, a imbastire il suo impressionante e gustosissimo memoriale dato alle stampe nel 2003 - giusto vent'anni fa - sotto il titolo di "La mia avventura ad Ivrea.
Per antica amicizia, ero stato fatto partecipe, dallo stesso autore, di questa sua fatica che, pur essendo evidentemente tale, esercitava su di lui una potenza liberatrice senza uguali. Fatica e liberazione, perché?
Bisogna dirlo: intanto fatica vera e moltiplicata, perché una cattiva infermità sopraggiunta nell'età già grave dello scrittore, che allora aveva superato addirittura gli ottanta, ne aveva oppresso e imprigionato il corpo lasciando a lui, con l'intelligenza intatta, soltanto una minima, residuale mobilità: quella delle dita che, picchiettando sui tasti di un computer, consentivano il deposito, per allora e per sempre, di un prezioso documento di vita.
Lo scrittore tornava allora ventenne con la mente e, recuperando le suggestioni del tempo lontano, si dava la missione di farne partecipi gli altri. Molti conoscevano quelle vicende, dato il racconto facondo numerose volte raccolto dalla voce stessa del protagonista, altri no e si voleva dunque raggiungerli attraverso un piccolo ma curatissimo, originale volume che si sarebbe affacciato, dignitoso, alla vetrina d'una moderna libreria di Sassari o di Cagliari.
Era convinto, Giglio, che, considerata anche la sua notorietà su molti campi della vita civile ed economica regionale (e anche nazionale), in tanti si sarebbero volti a conoscere quella pagina importante della sua vita con sorpresa forse, certo con interesse. E non per doverne, o dovergli, concedere un... facile e banale consenso ideologico - impossibile sotto molti punti di vista di etica civile oltre che politica in luogo ormai saldamente costituzionale-repubblicano e democratico - ma per registrare e gustare il tono genuino e fascinoso di una umanità che aveva avuto la sua arrischiata ribalta in una stagione irripetibile... o, a dir meglio, fortunatamente irripetibile.
Fu quello il trionfo domestico - ecco il potenziale liberatorio del memoriale fissato sulla piastra digitale e quindi sulla carta stampata - di una memoria orgogliosa, rimasta rispettosamente fedele alle logiche dei fatti e alle sue ispirazioni: la seconda guerra mondiale vissuta da un ventidue-ventitreenne sassarese nei territori insanguinati della Repubblica Sociale Italiana.
Vissuta con idealità sicure - quelle derivate da una formazione scolastica e sociale del tutto "regolare" nei lunghi anni della dittatura: «A 8 anni, in terza elementare, vestito da balilla, montavo la guardia, insieme agli ultimi garibaldini, al sacrario dei caduti delle Cinque giornate di Milano [...]. "Dulcem et decorum est pro patria mori", declamava in prima liceo il non fascista Prof. Chiarini. "Et dubitamus adhunc virtute estendere vires", scrivevo io con il minio sulla parete di fronte al Liceo Azuni».
E, aggiungo, vissuta nella condivisione drammatica eppure, nel quotidiano avventuroso, anche e soprattutto - a trovare l'aggettivo giusto e più rispondente - solidale, cameratesca e perfino fraterna con coetanei delle provenienze continentali più diverse...
«E quel camerata che, inciampato in una mina antiuomo, morente, dissanguato, mi prese la mano e mi raccomandò di dire al padre che era morto con coraggio, forse non meritava rispetto?», osservava l'anziano memorialista ricalatosi, sessant'anni dopo, nei panni mentali del reduce fortunato allora in rientro nella sua città per completare di farsi tutto adulto: per finire gli studi (dottore in legge), avviarsi a una professione (la carriera bancaria), crearsi una famiglia (marito e papà di due figli), regalarsi a una missione civile (lo sarebbe stato nella socialdemocrazia e nella massoneria). In rientro nella sua Sassari avvertita però, in quell'inizio d'estate del 1945, ostile alla sua divisa e alla sua esperienza: «mi aspettavo di essere ricevuto con tutti gli onori. E invece trovai che la massa che mi aveva accompagnato alla stazione, perché andassi a combattere contro gli Inglesi, mi fischiava minacciosa perché non avevo cambiato bandiera».