Quella volta contro i titini
Il Battaglione "Fulmine" fu inviato in Friuli dal comandante Borghese per soccorrere - questo scrive Giglio - i partigiani della Brigata Osoppo massacrati dai loro compagni comunisti perché non vollero essere «regalati a Tito».
«Anche i Tedeschi si mossero e inviarono truppe non nazionali, cioè ex prigionieri russi di minoranze razziali (quali Cosacchi e Mongoli) che facevano più danni alle popolazioni civili degli stessi partigiani di Tito. A ogni modo alla mia compagnia venne affidato il compito di tagliare la strada ai titini che si ritiravano verso sud-est pressati da nord. A un certo momento arrivò l'ordine di attestarci sull'orlo di una specie di burrone, che certamente chi aveva impartito l'ordine non aveva mai visto se non sulle carte topografiche. Ci venne anche dato di rinforzo un cane poliziotto con relativo istruttore tedesco. Questi decise che doveva scalare la collina dietro di me, e così fece. Col cane che correva da tutte le parti seguendo certamente una traccia.
Io mi inerpicavo per primo, cercando di seguire i sentieri tracciati dalle capre e dagli altri animali selvatici, aggrappandomi alle piantine e ai sassi sporgenti con l'intento di arrivare a uno spuntone di roccia che sporgeva come un balcone a meno di 20 metri dal precipizio. A un certo momento mi voltai, per vedere se i miei seguivano il sentiero da me tracciato, e mi resi conto che il Tedesco si era coricato dietro un pietrone e che il cane era scomparso. Mi fermai anch'io per riprendere fiato, quando udii dei latrati sulla mia testa... Provenivano dallo spuntone di roccia [...]. A un certo punto udii una raffica di spari, il latrato si fece ancora più pauroso e udii anche una voce umana che rantolava [...], arrivai insieme al Tedesco che si era mosso prima di me. Fu per me uno spettacolo orribile... Un uomo giaceva in terra sgozzato dal cane che ancora gli stringeva il collo e che strinse fino a quando il Tedesco levò di mano il mitra al disgraziato per il quale non c'era più niente da fare. Provai ad avvicinarmi, ma il ringhio del cane mi paralizzò. Si era messo a difesa della sua preda e non consentiva a nessuno di avvicinarsi. Soltanto il Tedesco poté impadronirsi di tutte le armi e munizioni e, quando aprì il tascapane del morto, diede al cane tutto il contenuto mangiabile. Soltanto allora la bestia si lasciò allontanare dal cadavere e tutti potemmo avvicinarci per osservarlo da vicino. Si trattava di uno Slavo con le insegne di Tito [...]. Un fatto è certo: senza l'intervento del cane ci avrebbe presi tutti d'infilata con la sua "Katiuscia" e io sarei stato il primo a cadere sotto i suoi colpi. Mi vergogno, ma non fui capace di essere grato a quel cane e non gli feci più neppure una carezza... per moltissimi anni, ogni volta che incontravo un pastore tedesco non potevo fare a meno di associarne la vista del muso a quel ricordo sanguinolento».
Cinquecento giorni di vita prudente e insieme, inevitabilmente, spericolata, tutta tesa fra calcolo aggressivo e cautela difensiva, e per il resto affidata agli dei.