Puntuale come il sole primaverile nel mese di aprile, il mondo politico e parapolitico italiano entra in fibrillazione per la ricorrenza del 25 aprile, anniversario della liberazione. Proclamata giornata festiva insieme alla domenica, alle ricorrenze religiose dei Santi Pietro e Paolo, di San Giuseppe, dell'Immacolata, della Pasquetta, del 26 dicembre e del 4 novembre con legge del 27 maggio 1949 n. 260 avente come titolo "Disposizioni in materia di ricorrenze festive". Per inciso il 25 aprile non ebbe neppure l'onore di essere annoverato tra le solennità civili, riservata invece all'11 febbraio, stipula dei Patti Lateranensi, e al 28 settembre, anniversario dell'insurrezione del popolo napoletano contro i Tedeschi.
Non è dato sapere la "ratio" dell'inclusione del 25 aprile fra le festività ordinarie. Di certo non fu l'attribuzione della data della liberazione alle forze partigiane.
Appena un anno prima, esattamente il 25 aprile del 1948, in quel di Milano, le associazioni partigiane chiesero di poter svolgere una pubblica manifestazione con relativo corteo per le strade. Il governo di allora, il primo eletto direttamente dal popolo il 18 aprile del 1948, rispose picche e autorizzò la manifestazione solo all'interno del Castello Sforzesco.
Sul palco i vari leader delle associazioni partigiane si beccarono tra di loro, al limite della rissa, salvo poi capeggiare un corteo in uscita dal Castello Sforzesco. Mal gliene incorse: il corteo fu brutalmente caricato dalla polizia, tanto che ci scappò pure il morto.
Ministro degli interni era allora il democristiano Mario Scelba, noto come "l'ammazza comunisti" e oggi invece osannato dalla sinistra per la sua legge contro l'apologia del fascismo.
Per circa un ventennio, sino alla fine degli anni '60, le manifestazioni celebrative avvennero perlopiù sempre in tono minore, senza alcun clamore e men che meno sbandierando il pericolo fascista.
Al contrario, durissima fu, in quel periodo, la reazione del Movimento Sociale Italiano, che allora si proclamava ed era l'erede del fascismo, alla celebrazione della data.
Ricordo che per il decennale della liberazione, il Msi inondò l'Italia di pubblicazioni, con ampio corredo fotografico, con le quali si richiamavano alla memoria le uccisioni e le stragi addebitate soprattutto alle formazioni partigiane comuniste.
Ricordo anche che, successivamente alla cerimonia ufficiale all'Altare della Patria, i giovani missini, armati di scope e secchi d'acqua "lavarono" il monumento profanato dalla presenza dei partigiani.
Praticamente sino all'esplosione della contestazione studentesca del '68, le scuole e le università erano in larghissima maggioranza controllate dalle organizzazioni studentesche della Giovane Italia e del Fuan (Fronte Universitario di Azione Nazionale), parallele al Msi.
In tale contesto fu praticamente impossibile ogni celebrazione del 25 aprile. Fu proprio il movimento del '68 a rinverdire il mito dell'antifascismo, contestando alla radice ciò che veniva chiamato "il sistema" (ovvero lo stato repubblicano italiano), in quanto aveva "tradito" i suoi valori fondanti, fra cui l'antifascismo.
Di qui tutta una serie di nuovi slogan: «
ora e sempre resistenza», «
camerata basco nero il tuo posto è al cimitero», «
fascisti carogne tornate nelle fogne», «
fascisti borghesi ancora pochi mesi», ecc..
Da allora e per i successivi cinquant'anni non è stato che un alternarsi di fasi di percepite minacce fasciste e di altrettante risposte antifasciste perlopiù legate al rischio di una svolta autoritaria della politica italiana.
Ci sarebbe da domandarsi perché mai la sinistra anche di fronte a fatti ed episodi di scarsa rilevanza addebitabili a frange neofasciste gridino al pericolo di un ritorno al fascismo.
Certo c'è la strumentalizzazione e l'uso politico di quegli episodi per contrastare in qualche modo le forze antagoniste, in passato la Dc e il Psi di Craxi, in tempi più recenti Berlusconi, Salvini e oggi la Meloni. Ma al fondo c'è una motivazione inconscia, quasi inserita nel dna della sinistra, una motivazione che nasce dal fatto che la sinistra, almeno nelle sue componenti di derivazione marxista, non è mai riuscita a dare e a darsi una spiegazione razionale di come, in un contesto che dava come certa una vittoria delle forze socialcomuniste, una banda di ragazzi squinternati (l'età media degli squadristi era di 21 anni), capeggiati da un ex socialista rivoluzionario (definito da Gramsci "traditore"), riuscirono a prendere il potere beffando uomini del calibro di Giolitti, Salandra, Nitti, Facta, Turati, don Sturzo e lo stesso Gramsci.
E come quella stessa banda creò un regime e impose un modo di vivere e di pensare che non aveva precedenti nella storia, ma che trovò tanti imitatori e simpatizzanti in tutto il mondo.
Palmiro Togliatti, forse l'uomo intellettualmente più avveduto della sinistra di quel tempo, definì il fascismo "regime reazionario di massa", mandando a quel paese il postulato marxista per cui un movimento di massa non poteva non essere progressista e un movimento reazionario non poteva non essere contro le masse. Sappiamo tutti come il regime cadde, vuoi per la congiura interna che sfiduciò Mussolini il 25 luglio del '43, ma soprattutto per la rovinosa sconfitta che subì l'Italia nella Seconda Guerra Mondiale.
L'eredità ingombrante di quel regime fu che alcune centinaia di migliaia di Italiani, a torto o a ragione, non ne volevano sentire di fare un mea culpa per aver seguito il fascismo, malgrado le uccisioni, gli arresti e le epurazioni subite. Un vero e proprio grattacapo per la nuova classe dirigente che degli ex fascisti aveva bisogno perché costituivano l'asse portante della burocrazia, delle forze dell'ordine e dei quadri medio alti dell'industria.
Si arrivò quindi, nell'ultimo scorcio del 1946, a un onorevole compromesso tra le principali forze politiche antifasciste Pci, Dc, Psi e gli esponenti di spicco del fascismo clandestino.
Liquidato l'unico governo che in qualche modo rappresentava le forze della resistenza, il governo dell'epoca promulgò il decreto che concedeva un'ampia amnistia ai fascisti, il 22 giugno del '46, mentre il 26 dicembre dello stesso anno si costituiva il Movimento Sociale Italiano che si definì «
ordine di combattenti e di credenti».
In cambio i fascisti garantirono che non si sarebbero prestati ad alcuna manovra eversiva contro la repubblica, che avrebbero accettato il sistema democratico parlamentare e che non avrebbero manifestato spirito revanscista. Diciamo che quel compromesso, che dura tutt'ora, ha messo la parola fine al fascismo e all'antifascismo storici.
Tutto bene, quindi. Manco per niente!
È vero che fascismo e antifascismo sono categorie politiche defunte, lasciate cioè alle un po' algide cure degli storici, ma è anche vero che nel frattempo gli ex hanno creato sia il mito del fascismo che quello dell'antifascismo. Poiché dal primo è poi scaturito il mito della Rsi, dal secondo è invece scaturito il mito della Resistenza.
I miti si sa sono brutte bestie, tetragone a ogni critica, se pur logica e razionale, sorde a quel sano realismo rivendicato dalla storia, insensibili persino alle ragioni non meno valide della politica. Ma i miti si dividono anche in capacitanti e incapacitanti.
I primi incidono sull'evolversi della storia e mantengono un fascino, apparentemente illogico, sulle nuove generazioni. Il fascismo fu ed è un mito capacitante, nel senso che alcune delle sue idee e globalmente la sua "weltanschauung" (concezione dell'uomo e della vita) hanno una certa presa principalmente sulle giovanissime generazioni. Difficile spiegarne le ragioni. Non c'entrano niente la violenza, le leggi razziali, il delitto Matteotti, la dittatura, il ripudio della democrazia. Nessun giovane del terzo millennio concepisce una società non democratica, non liberale e intrisa di violenza. Eppure manca a questi adolescenti un sistema di valori collaudati, una figura paterna, personale e collettiva, magari da contestare, ma pure da considerare come punto di riferimento per il proprio avvenire. Paradossalmente il fascismo fornisce ai giovani alcune certezze di cui essi hanno, anche se inconsciamente, un disperato bisogno e crea in essi un autostima che evidentemente altre idee "moderne" non sanno fornire.
Ma al contempo va incontro alla insoddisfazione giovanile per lo status quo in cui si trova a vivere, fornendole idee, spunti, cultura per creare una società migliore e diversa.
Mito conservatore - Mussolini percepito come padre ideale, severo ma giusto e soprattutto trascinatore verso mete ambiziose - ma al contempo rivoluzionario in quanto indica parole d'ordine del tipo "Dio, Patria e famiglia", per gli anziani desuete e retrò, ma per i giovani nati e cresciuti in una società sostanzialmente pagana, dove contano solo i diritti individuali e dove ogni aggregazione comunitaria che non sia finalizzata al dio quattrino è vista con sospetto, hanno un sapore del tutto nuovo che fa intravedere a essi un tipo di società diversa.
L'antifascismo (e la resistenza) è invece un mito incapacitante per il semplice motivo che ha tagliato tutti i traguardi: sconfitto il fascismo e il nazismo, eliminate le loro classi dirigenti, ripristinata la repubblica e la democrazia che senso ha proporsi come guardia bianca dello status quo?
È questa totale difesa dello status quo e del politicamente corretto, unita all'assenza di ogni retroterra culturale e di una concezione della storia statica e non mutabile che rendono scarsamente appetibile il mito dell'antifascismo alle nuove generazioni.