Dopo tre mesi di proteste e milioni di cittadini a manifestare nelle strade di tutto il paese, Benjamin Netanyahu si è arreso e ha "congelato" la proposta di riforma della giustizia.
È forse la prima volta che il leader cede alla forza delle manifestazioni di piazza.
Ma dodici sabati di proteste, migliaia di manifestanti, scioperi che hanno bloccato e isolato di fatto il paese, le ambasciate all'estero chiuse così come le scuole, le Università e gli ospedali, il capo della polizia che sfila insieme ai cittadini: tutto questo ha evidentemente fatto comprendere che la corda era troppo tesa e un paese come Israele non può permettersi il lusso che essa si spezzi.
Quindi, in un discorso conciliante ma a tratti duro, Netanyahu ha giustificato la decisione «
in nome della responsabilità nazionale», sottolineando comunque che «
la riforma va fatta».
Citando Salomone e l'episodio biblico delle due madri, il leader ha affermato che "non vuole fare a pezzi il popolo".
Chiarissimo e forte l'appello al dialogo, affermando che in Israele non devono esserci nemici ma fratelli: «
Israele» - ha detto Netanyahu - «
non può esistere senza esercito, la disobbedienza è la fine del nostro Stato».
Quanto sta avvenendo in Israele - un piccolo Stato - ha comunque occupato, per le solite comprensibili ragioni, ampio spazio nei notiziari televisivi e nei quotidiani.
Questi avvenimenti si prestano ad alcune considerazioni.
Israele non ha una Costituzione scritta: ha tuttavia una serie di "Leggi fondamentali" che sanciscono i diritti individuali e le relazioni tra i cittadini e lo Stato.
La Corte Suprema, oggetto della riforma, ha un ruolo di eccezionale importanza nella vita politica di Israele e ha pochi contrappesi nel governo in carica.
Il Parlamento israeliano è monocamerale, quindi manca un'eventuale dialettica tra due categorie di rappresentanti; il Presidente dello Stato non può mettere il veto alle leggi approvate dal Parlamento e non può rimandare indietro una legge per una eventuale "revisione".
A partire dagli anni '90 (con una riforma del sistema giudiziario approvata proprio dal Likud) la Corte Suprema ha assunto un ruolo preponderante di contrappeso al potere esecutivo, con una serie di sentenze che le hanno di fatto attribuito il potere di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset.
La Corte Suprema non si limita ad abolire le leggi che a suo parere sono contrarie alle Leggi fondamentali, ma ha un ampio potere di revisione della legislazione, pur con alcuni limiti.
Potere che si estende anche ai provvedimenti amministrativi del governo e degli altri enti statali, sulla base della cosiddetta "clausola della ragionevolezza". In questi casi il Parlamento non ha in mano nessuna possibilità di intervento.
A gennaio la Corte ha fatto dimettere dal suo incarico di Ministro dell'Interno e della Salute Arye Dery, leader del partito ultraortodosso Shas, il quale, sotto processo per evasione fiscale, aveva evitato la condanna grazie a un patteggiamento e aveva affermato che si sarebbe ritirato dalla vita pubblica.
La Corte Suprema ha allora decretato che sarebbe stato "estremamente irragionevole" che Dery restasse al governo e il ministro si è dimesso.
Leggendo questo episodio ho pensato a quanti in Italia hanno promesso il ritiro dalla vita pubblica e invece sono ancora lì.
E veniamo all'oggetto della contesa.
La proposta di riforma avanzata da Netanyahu e dalla sua anomala coalizione si imperniava su due elementi principali.
Il primo riguardava le modalità di nomina dei giudici.
Ora, tutti i giudici del paese, da quelli della Corte Suprema a quelli delle corti inferiori, sono nominati da una commissione composta da nove membri: tre giudici della Corte Suprema stessa, due rappresentanti dell'associazione forense israeliana, due membri del Parlamento e due ministri del governo. Quindi quattro rappresentanti politici su nove componenti. Minoranza.
La prima modifica consisteva appunto nel portare a undici detti componenti, otto dei quali di nomina politica. In tal modo il governo avrebbe avuto il totale controllo di tutte le nomine, dalla Corte Suprema ai giudici delle corti inferiori.
Il secondo punto della proposta di riforma consisteva nella eliminazione delle "clausole di ragionevolezza": la Corte Suprema avrebbe avuto solo il compito di valutare se una legge è aderente o meno ai princìpi espressi dalle Leggi fondamentali.
Inoltre il Parlamento avrebbe avuto il potere di votare di nuovo una legge respinta dalla Corte e mantenere la validità della stessa, il tutto a maggioranza semplice.
Questo punto in particolare ha preoccupato l'opposizione e parte della società israeliana, che vedeva in tal modo un assoggettamento della Corte Suprema al potere politico.
Analogo scetticismo è stato manifestato dal presidente di Israele, Isaac Herzog, intravvedendo «
gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato d'Israele».
Come si vede è una situazione abbastanza controversa.
Sicuramente ora la Corte Suprema gode di un potere eccessivo nella vita politica israeliana, poiché è evidente come ci sia uno squilibrio di poteri che favorisce il sistema giudiziario. Esso praticamente può annullare le decisioni del Parlamento, che è la voce e la volontà del popolo sovrano.
È altrettanto vero che la soluzione proposta dal governo Netanyahu creerebbe uno squilibrio in senso opposto - per alcuni più pericoloso dell'attuale - poiché la maggioranza al governo non avrebbe alcun contrappeso e non ci sarebbe alcun organo superiore a sorvegliarne l'operato e in grado di correggerne gli errori o le anomalie legislative, come invece avviene nella maggior parte dei sistemi democratici.
Non è chiaro cosa succederà in futuro.
Netanyahu è intenzionato ad andare avanti con la riforma, accettando nella sua riproposizione il contributo dell'opposizione.
Ha detto che occorrerà del tempo per raggiungere un accordo: «
rivoltare ogni pietra per trovare soluzioni».
Tempo quindi: anche se un paese che in meno di tre anni ha votato ben cinque volte forse non se ne può permettere tanto.
Il ruolo dell'opposizione e dei suoi due leader diviene fondamentale.
Yair Lapid, leader della formazione Yesh Atid, al di là dei suoi continui insulti, ha detto che controllerà che non ci siano trucchi o bluff nella nuova proposta.
Benny Gantz, leader del partito Unità Nazionale, ha invece dimostrato una certa disponibilità nei confronti del premier e pare ci siano stati anche dei contatti tra i due.
Un'intesa tra Netanyahu e Gantz sarebbe importantissima poiché consentirebbe al premier di sganciarsi dall'opprimente stretta della destra estrema, che oggi è in grado di condizionarlo.
E il passato di Gantz, che è stato anche Capo di Stato Maggiore, può contribuire a trovare un terreno comune sul quale muoversi.
È essenziale che questo caos in Israele volga al termine, poiché il paese non se lo può permettere. E che la contrapposizione tra una folla che grida "fascisti" e la risposta "anarchici" cessi e che si possa riprendere un discorso costruttivo «
con il cuore aperto, non per sconfiggere, ma per concordare».
Il 26 aprile prossimo in Israele si celebra la Festa dell'Indipendenza, una ricorrenza che ha sempre unito tutto il popolo.
E occorre ricordare - a chi da lontano osserva questi avvenimenti e con un sorrisetto stupido si bea di quanto là avviene - che Israele è un paese perennemente in guerra e che le dinamiche che lo muovono partono sempre da considerazioni per noi forse superflue, ma vitali per la gente, che non può mai abbassare la guardia e l'attenzione, circondata com'è da nemici vicini e lontani.
Un'altra considerazione riguarda il comportamento di Joe Biden e degli Stati Uniti.
A Netanyahu non piace la tentazione espressa dagli Usa di "tollerare" (parole del presidente del gruppo dei Capi di Stato Maggiore, Mark Milley) che l'Iran divenga nucleare finché non esprima una minaccia diretta. Sconfessando così tutti gli impegni presi.
L'ambasciatore Usa a Gerusalemme Tom Nides in svariate interviste ha ripetuto che il rapporto tra gli Usa e Israele è un rapporto «
tra fratelli, un legame di sangue», affermando che presto ci sarebbe stato un invito della Casa Bianca a Benjamin Netanyahu.
Biden ha smentito il suo ambasciatore segnalando che, nonostante il cambiamento della situazione da lui seguita con profonda preoccupazione, c'è in atto una profonda crisi.
È il solito atteggiamento dei presidenti democratici Usa nei confronti di Israele.
La noncuranza con la quale Biden segue lo scacchiere medio orientale, l'indifferenza con la quale ha abbandonato la scena in Iraq, Siria, Afghanistan - lasciando che altre potenze prendessero il suo posto - spinge i paesi di quell'area a chiedersi quale sarà il futuro ruolo degli Stati Uniti e le risposte sono inquietanti.
La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita - le due bandiere dei sunniti e degli sciiti, inconciliabili dal punto di vista religioso - che erano interrotte dal 2016, è una prima risposta a tale interrogativo.
È paradossale uno sguardo sul mondo passato e presente (e futuro).
In Italia Berlusconi, Renzi e Salvini; in Russia Navalny e tanti altri; in Cina gli oppositori di Xi; in Brasile Lula prima e Bolsonaro oggi; negli Usa Donald Trump; in India Rahul Gandhi non potrà candidarsi alle elezioni per una condanna per diffamazione nei confronti del premier Modi; in Francia Macron è oggetto di due indagini (ma lì è tutto congelato fino alla fine del mandato).
Avversari fatti fuori per via giudiziaria: quello tra il mondo politico e il mondo giudiziario è un confronto che in genere ha un solo perdente. La politica.