Dopo i parlamenti di Pietro IV il Cerimonioso e di Alfonso V il Magnanimo, dalla fine del Quattrocento i parlamenti si riunirono con relativa frequenza, di regola ogni dieci anni: complessivamente, tra il 1481 e il 1699, ne furono celebrati venti.
Venivano convocati a Cagliari dal viceré mediante l'invio di lettere personali. Aperti i lavori e compiuto il giuramento solenne in Cattedrale, i tre bracci (o Stamenti) che formavano il Parlamento si riunivano separatamente: quello "militare" (composto da baroni feudatari, nobili, signori con giurisdizione e cavalieri) nella Chiesa della Speranza, quello "ecclesiastico" (formato da arcivescovi, vescovi, abati mitrati, dignità e deputati delle chiese cattedrali) nel Palazzo Arcivescovile e quello "reale" (composto dai rappresentanti delle città regie) nel Palazzo Civico. Quindi, ultimate le sessioni, i lavori si chiudevano, in seduta plenaria, nella Cattedrale.
Le principali funzioni dei parlamenti consistevano nel discutere l'entità del "donativo" e nel deliberare i "capitoli di corte" (i Capitols) da sottoporre all'approvazione del sovrano.
Il donativo era una sorta di imposta che il Regno di Sardegna doveva versare alla Corona. Più precisamente si trattava di una somma, il cui ammontare veniva determinato in ciascun Parlamento, da pagare a scadenze regolari. Stabilito l'ammontare del donativo, lo stesso veniva ripartito, quale tributo personale, sull'intera popolazione. Oltre che del donativo, il Parlamento era chiamato a discutere sui principali problemi del Regno e chiedeva - come detto attraverso i Capitols - la concessione di privilegi e la tutela di interessi particolari.
Il principio contrattualistico del "do ut des" ovvero del "do ut facias" tra sovrano e sudditi, vale a dire tra Corona e Regno, si affermò per la prima volta nel Parlamento del viceré Eximenen Perez Scrivà de' Romani (1481-1485), i cui lavori si svolsero appena conclusa la guerra che aveva visto contrapposti il marchese di Oristano, Leonardo Alagón, ultimo epigono dei giudici d'Arborea, e il viceré Nicolò Carroz.
In siffatto contesto, nelle intenzioni del sovrano, la convocazione del Parlamento era stata concepita anche come una misura di riordino e pacificazione di una Sardegna lacerata e divisa in fazioni. In tale assise, per la prima volta, venne posta la questione dell'apertura delle cariche dell'amministrazione pubblica, sino a quel momento riservate agli Iberici, anche agli abitanti della "nació sardesca".
La celebrazione del Parlamento in questione, per la Sardegna, coincide con l'inizio della dominazione spagnola, frutto dell'unione delle corone di Aragona e di Castiglia, che si verifica nel 1479 alla morte del sovrano Giovanni II d'Aragona, il Senza Fede, cui succede il figlio Ferdinando II, il Cattolico, marito di Isabella II di Castiglia. È da questo periodo che il funzionamento del Parlamento viene disciplinato secondo più puntuali disposizioni.
Nella dialettica parlamentare, il pomo della discordia era costituito dallo stabilire se il donativo dovesse essere concesso prima del soddisfacimento delle richieste stamentarie. Ciò determinò una dura radicalizzazione dei rapporti tra il Parlamento e il viceré. Alla fine, i parlamentari acconsentirono a votare il donativo al re a fronte dell'impegno dello stesso a riparare gli abusi subiti dai regnucoli (i greuges) e a concedere grazie e privilegi.
Nel Parlamento del 1504-1511 (presieduto dal viceré Dusay e, a partire dal novembre del 1508, dal viceré Ferdinando Girón de Rebolledo) si evidenziarono forti contrasti tra la Corona e i tre bracci e, in più occasioni, emerse l'accresciuto potere contrattuale dello schieramento stamentario. È nel corso di questo lungo e travagliato Parlamento che l'istituzione rappresentativa sarda prese coscienza di sé e della propria forza negoziale, acquisendo una più precisa fisionomia e natura giuridica. Più in generale, come è stato evidenziato, nel XVI secolo, durante il regno di Carlo V, l'istituto parlamentare iniziò a far parte del patrimonio politico e culturale dei ceti dirigenti locali che, per tale via, partecipavano in qualche misura all'attività legislativa.
Anche i due parlamenti del viceré Angelo de Vilanova (1518-1523 e 1528) sono attraversati dalle forti tensioni tra gli stamenti da un lato e il viceré e la Corona dall'altro e persino tra i diversi stamenti e all'interno degli stessi. Nel Parlamento presieduto dal viceré Antonio Folch de Cardona (1543-1544), lo Stamento Reale, nella seduta del 28 maggio 1543 aveva subordinato la propria disponibilità a versare il donativo dell'accoglimento di alcune condizioni pretendendo per giunta di avere la certezza assoluta, prima di assumere il relativo impegno, che le stesse venissero accolte. Il viceré obiettò che la pretesa non era ammissibile, perché costituiva un'innovazione in contrasto con la consuetudine parlamentare. In ogni caso, assicurava che, pro bono pacis, ritirate le richieste, le avrebbe esaminate senza opporre eccezioni pregiudiziali e con la migliore buona volontà.
Fra le condizioni (le cosiddette domande) presentate dal Parlamento Cardona meritano di essere ricordate la richiesta della città di Cagliari, e quindi dello Stamento Reale, della nomina di un Sardo a "reggente" presso il Consiglio Supremo d'Aragona e l'istituzione a Cagliari di uno "Studio Generale" (cioè di una Università degli Studi), a spese del Regno e della città: è questa la più antica istanza riferita alla fondazione dell'Università nella capitale. Inoltre, il Capitolo Cattedrale di Alghero richiese la riserva ai Sardi (gli Algheresi dunque si consideravano oramai Sardi) di pensioni e benefici ecclesiastici. In considerazione delle contribuzioni di cui i Sardi si erano dovuti far carico di recente, nel Parlamento Cardona il donativo venne contenuto nella misura di centomila scudi. Dopo di che, l'8 ottobre 1543, l'assise concluse i lavori.
Tra le richieste del Parlamento del viceré Lorenzo Fernández de Heredia (1553-1554), l'ultimo celebrato in Sardegna sotto il regno di Carlo V, compare quella volta a garantire un più equo trattamento per soldati e funzionari sardi rispetto a quelli previsti per gli altri regni della Corona. A questo parlamento segue, a distanza di soli cinque anni, quello presieduto dal viceré Alvaro de Madrigal (1558-1560): è un parlamento straordinario e di transizione in quanto, pur essendo precedente di qualche anno rispetto all'istituzione della Reale Udienza (1564), si svolge già sotto il regno e il nuovo corso politico inaugurato da Filippo II. Rispetto alla richiesta del donativo, si assiste a una resistenza dei membri dei tre bracci, motivata dall'imposizione di numerose recenti tassazioni e dalla estrema povertà dei Sardi che avrebbero dovuto pagare per cinque anni due quote di donativo. Alla fine si arrivò a un compromesso e il Parlamento concluse i lavori con l'approvazione di un donativo di 100 mila ducati d'oro da pagare peraltro solo dal 1 novembre 1563.
In questo periodo, sotto Filippo II, la Spagna cerca di attuare una politica di contenimento dello strapotere feudale. Nel contempo si verifica l'irruzione dello Stato nella società sarda. Si tratta di fenomeni nuovi che rompono gli equilibri dell'età basso-medioevale. Ma tutto ciò avviene gradualmente, nel corso del XVI secolo, attraverso la progressiva introduzione - sia a livello politico che burocratico - di nuove figure istituzionali in sintonia con l'apparato centrale della monarchia spagnola. In particolare, dopo l'istituzione del Consiglio d'Aragona (1494), si registra l'irrobustimento degli apparati giudiziario, militare e fiscale.
Inoltre si assiste alla conversione della religione da fatto di fede individuale in vero e proprio "instrumentum regni", al forte indirizzo della produzione culturale secondo i dettami dell'ideologia controriformistica, al controllo inflessibile della produzione agricola da parte delle città regie e dei signori feudali, alla rincorsa ai titoli nobiliari e alla progressiva gerarchizzazione della nobiltà, alla rigida codificazione del mondo del lavoro urbano nelle strutture corporative (i gremi), al sempre maggiore collegamento (o dipendenza che dir si voglia) delle vicende locali dalle sorti politiche ed economiche dello Stato centrale. Tuttavia l'apparato statale, benché consolidato, subisce a sua volta i condizionamenti del potere locale laddove più forti sono il peso politico delle consorterie aristocratiche, le resistenze e gli orgogli delle municipalità, gli interessi dei potentati economici. I segni di tale crescente contrapposizione si manifestano, in particolare, dalla seconda metà del Cinquecento.
Per quanto riguarda la città di Cagliari, il 30 settembre del 1500 viene emanato un regio decreto di riforma del Consiglio Civico in base al quale la scelta dei candidati al sorteggio veniva affidata al viceré. Col trascorrere del tempo divenne sempre più evidente la perdita di autonomia da parte del Consiglio Civico e la progressiva ingerenza dell'autorità centrale nell'amministrazione locale.
In questo periodo, all'interno della feudalità sarda, si registra una certa turbolenza anche se la stessa non è in grado di esprimere un indirizzo di grande respiro nei confronti della monarchia spagnola. Spesso i feudatari operano in maniera illegale (addirittura controllano il banditismo e il contrabbando). Filippo II cerca di eroderne il potere e di far emergere nuovi ceti urbani. In particolare, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, si verifica un maggiore coinvolgimento delle classi dirigenti locali nell'amministrazione del Regno: i "naturals" sardi vengono chiamati in numero sempre crescente a gestire la cosa pubblica con l'attribuzione di incarichi politici e amministrativi sia a livello centrale che periferico. Via via che cresce questo coinvolgimento, l'identificazione dei ceti dirigenti sardi nella monarchia spagnola si fa sempre maggiore.
Nella città di Cagliari, peraltro, col passare degli anni, si crea un intreccio di interessi e un clima di marcata collusione tra la vecchia aristocrazia feudale, il clero capitolare, i mercanti, gli appaltatori dei feudi e l'Inquisizione. La saldatura degli interessi avviene in particolare attraverso la gestione dell'esportazione del grano e delle dogane civiche affidata, nella metà del Cinquecento, a potenti famiglie legate al Tribunale dell'Inquisizione. Queste oligarchie si sentono forti al punto di sfidare apertamente i rappresentanti della Corona di Spagna che cercano di porre fine alle loro malversazioni o almeno di contenerne gli effetti.
Quando il viceré don Antonio Cardona pone sotto inchiesta alcuni ministri che avevano utilizzato le entrate regie per acquistare feudi, gli Aymerich, gli Aragall, i Torrellas e i Zapata contestano con forza la decisione del viceré. Lo scontro che si determina coinvolge ben presto il clero capitolare e l'Inquisizione. Per mettere in cattiva luce il viceré e costringerlo ad archiviare l'inchiesta, la feudalità sarda coinvolge la moglie dello stesso, donna Maria Requesens, in un processo per stregoneria (per "sortilegio, maleficios y invocaciones de demonios"). Il clima si arroventa al punto che l'imperatore Carlo V si vede costretto a intervenire di persona e a destituire il visitatore generale, il vescovo di Alghero Pietro Vaguer, al quale nel 1543 era stata affidata la delicata inchiesta.
Il "visitador" era uno strumento eccezionale cui ricorreva il governo di Madrid al fine di accertare la competenza e l'onestà dei funzionari pubblici, di spulciare i conti dell'erario, di revisionare l'amministrazione del fisco e di verificare lo stato delle finanze pubbliche: in pratica era una sorta di ispettore ministeriale. Lo strumento, come detto, era di natura eccezionale, ma di fatto allo stesso si faceva ricorso con una certa frequenza: dal 1543 al 1681 furono nominati 16 visitadors del Regno di Sardegna. Ciò si rese necessario in quanto, nel XVI e nel XVII secolo, la corruzione costituiva un fenomeno dilagante nella pubblica amministrazione.
In pratica, il visitador controllava l'operato degli stessi viceré (che pure erano esclusi dall'obbligo di "tener taula"). Tra i visitatori illustri, oltre il vescovo Vaguer, vanno ricordati il giurista cagliaritano Monserrato Rossellò (nominato nel 1598) e il canonico di Saragozza Martin Carrillo (nominato nel 1610), che, al termine della sua missione, nel 1612, pubblicò un'ampia Relacion sulle condizioni dell'Isola che avrebbe contribuito a far conoscere la Sardegna agli eruditi del tempo.
Tornando all'affare della viceregina, donna Maria Requesens, si fa presente che il contrasto si spostò dalle aule del Tribunale dell'Inquisizione a quelle del Consiglio Civico dove il consigliere Bartolomeo Selles denunciò le speculazioni commerciali e le collusioni tra i mercanti e l'Inquisizione. A tale denuncia aveva fatto seguito, durante un ricevimento nel Palazzo Viceregio, un altro animato intervento dello stesso Selles, nel corso del quale aveva stigmatizzato il comportamento della consorteria feudale-commerciale che, praticando il mercato nero del grano e impedendo la formazione delle riserve cittadine (l'"insierro"), rischiava di provocare una grave carestia in città. In esito a tali denunce, l'Inquisizione venne privata della gestione delle dogane. La reazione della consorteria feudale-commerciale non si lasciò attendere e diede avvio a una dura rappresaglia nei confronti dei Selles: alcuni furono costretti alla fuga, altri dovettero subire violenze e soprusi.
Il martedì Santo del 1552 Bartolomeo Selles - mentre, con indosso le insegne del suo grado, si recava in Cattedrale per assistere a una funzione religiosa - venne assalito e percosso in pubblico con un nerbo di bue. L'assalitore, prontamente arrestato, risultò essere un tempiese prezzolato da alcuni nobili cagliaritani. A parte la gravità del fatto sul piano personale, la popolazione si sentì offesa perché era stato colpito un consigliere civico "colpevole" di aver denunciato in Consiglio le attività speculative poste in essere nel commercio del grano da un ristretto gruppo di famiglie che facevano capo a don Salvatore e don Cristoforo Aymerich e ai fratelli Melchiorre e Filippo Torrellas.
Il caso Selles evidenzia come col passare del tempo in Sardegna, e soprattutto nella città di Cagliari, si era venuta a formare una nobiltà ricca e potente con la quale la Spagna doveva in qualche misura confrontarsi e scendere a patti. Il conflitto tra la feudalità sarda e la Corona si acuì a seguito dell'istituzione nel 1564 della Reale Udienza, organo davanti al quale i vassalli potevano denunciare gli abusi dei feudatari. Questi si sentono minacciati nei loro privilegi e nell'esercizio dei poteri (anche giurisdizionali) e cercano di colpire il nuovo ceto burocratico attraverso l'Inquisizione, che vede alleati l'alto clero e la feudalità reazionaria.
Il Cinquecento rappresenta dunque il periodo di fondamentale passaggio tra medioevo e modernità nel quale due epoche e due culture (quella aristocratico-feudale e quella borghese) entrano in contatto e si scontrano. In tale periodo, l'autonomismo sardo non era solo rivendicazione di "oficios y mercedes" per i naturals, oltre che tutela dei privilegi faticosamente acquisiti. Esprimeva infatti anche la diffusa consapevolezza di costituire un popolo "distinto" dagli Spagnoli: consapevolezza che prese forma nella lunga rivendicazione dell'esclusività delle cariche pubbliche del Regno per i naturals sardi.
In queste aspre competizioni i personaggi più esposti furono Sigismondo Arquer e Salvatore Aymerich. Ma le loro storie personali sono anche espressione della lotta tra due classi (quella aristocratico-feudale e l'emergente ceto borghese) che, nel Cinquecento, si fronteggiarono senza esclusione di colpi: è il periodo - come detto - caratterizzato dall'irruzione dello Stato centrale nella società sarda, con tutto ciò che ne consegue (accentramento del sistema giuridico e giudiziario, creazione della burocrazia e della diplomazia permanenti, formazione di un esercito alle dirette dipendenze del sovrano, aumento consistente della fiscalità per mantenere una struttura più articolata e complessa). E questa è la ragione profonda che spiega l'asprezza del conflitto.