Sopra: mix energetico Italia - dati 2019, fonte Ispi
Sotto: scelte improcrastinabili se non vogliamo che qualcuno
stacchi la spina
Lavoravo ancora nell'informatica quando il governo italiano decise di dare applicazione alla Direttiva europea 96/92/CE ("Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell'Unione Europea del 19 dicembre 1996, concernente norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica", che imponeva - in pratica - la messa sul mercato della nostra società elettrica, Enel, allora totalmente controllata dallo Stato tramite il Ministero del Tesoro.
Ovviamente i nobili fini della Direttiva si sprecavano: miglioramento del funzionamento del mercato, applicazione dei princìpi di concorrenza, efficienza nella generazione, trasmissione e distribuzione dell'energia, interconnessione delle reti, trasparenza dei prezzi e tralascio il resto (sono ben 39 punti!).
Fu un periodo frenetico: occorreva modificare tutto il sistema informativo aziendale per scorporare le attività delle tre aree - Produzione, Trasmissione e Distribuzione - separando i conti di Contabilità generale, fino ad arrivare alle singole poste del Bilancio, che ovviamente doveva essere separato per le tre attività. E così per il personale, i cespiti, i fornitori e via dicendo. E quindi l'Enel fu messa in vendita (tranne la Trasmissione, monopolio naturale) e finì sul mercato.
Il risultato è che attualmente in Enel la partecipazione pubblica è ridotta a una quota del 23,6%, rendendola di fatto, in particolari condizioni, perfettamente contendibile. Direttiva Europea, dunque, che ha smosso le acque tranquille di un'azienda dello Stato.
Di fronte a noi, la Francia ha tranquillamente ignorato quella Direttiva e i suoi 39 punti e attualmente l'Edf, l'analogo ente francese, ha nel suo azionariato una massiccia presenza dello Stato che controlla circa l'80% del suo capitale.
Oltr'Alpe l'elettricità è considerata un bene strategico, in Italia invece no.
In questo particolare e drammatico momento di profonda crisi energetica conseguente al rincaro - comunque prevedibile - di tutte le materie prime, balza evidente la differenza tra il sistema francese di difesa degli interessi economici nazionali e quello di casa nostra.
Il governo Draghi è costretto, per far fronte alle difficoltà di imprese e famiglie per gli aumenti di gas ed elettricità, a varare aiuti di Stato (i soliti sussidi) stanziando prima 5 poi 7 miliardi, con effetti limitati nel tempo e con risultati risibili.
La Francia, forte delle sue 56 centrali nucleari e con un'autonomia energetica complessiva di circa il 70%, ha seguito un'altra strada. Ha annunciato un aumento del capitale dell'Edf di 2,5 miliardi di euro (2 dei quali a carico dello Stato) e ha chiesto alla società elettrica francese di vendere a prezzi scontati l'energia prodotta dalle sue centrali, ovviamente solo a cittadini e imprese francesi. In pratica ha deciso di rinunciare a una parte dei propri utili.
Queste scelte - che discendono ovviamente da quelle fatte circa 30 anni fa - rispecchiano in pieno il loro spirito nazionale, sempre determinato nel far blocco tra Stato ed economia privata per la difesa degli interessi nazionali.
Possiamo definirlo spirito "sovranista", senza abusare di un termine che ormai ha quasi un significato negativo?
Eppure è così: di fronte a una Direttiva Europea dinanzi alla quale l'Italia si è immediatamente prostrata (governo Prodi), la Francia ha guardato in avanti e l'ha semplicemente ignorata.
Veniamo ora a una questione ancora più stringente e preoccupante.
La guerra tra Russia e Ucraina e i conseguenti provvedimenti ritorsivi nei confronti di Mosca rischiano di rendere drammatica la nostra sudditanza energetica nei confronti di altri Stati.
Se da una parte ci sono le sanzioni alle quali ci siamo giustamente adeguati, dall'altro - avendo per il momento escluso dalle sanzioni le forniture di gas - l'Europa continua a finanziare Mosca con 800 milioni di euro al giorno (80 milioni da parte dell'Italia).
Nell'immediato è impossibile rinunciare al gas russo (circa il 43% del nostro fabbisogno) e anche se cerchiamo disperatamente altri fornitori (Algeria, Qatar, Azerbaigian), questa diversificazione delle fonti non può essere l'unica strada da percorrere.
Occorre individuarne altre e occorre farlo rapidamente, superando divisioni politiche e ideologiche (che talvolta coincidono), poiché gli effetti di tali scelte non si manifestano certo immediatamente, soprattutto in Italia dove qualunque legge ha poi bisogno di regolamenti, decreti attuativi e altri bizantinismi.
Ci sono diverse scelte possibili.
Una di queste è l'incremento dell'estrazione di gas, utilizzando le concessioni e le trivellazioni disponibili e individuandone delle ulteriori.
C'è inoltre la possibilità di recuperare le fonti energetiche tradizionali come quelle a carbone, dismesse negli ultimi anni in nome di una transizione ecologica. Scelta che è già stata fatta da altri Stati e propugnata anche da Frans Timmermans, vice presidente esecutivo del Green Deal europeo.
Si potrebbe incrementare l'importazione di gas liquido (anche se a costi proibitivi) dagli Stati Uniti e anche dal Qatar, anche se scontiamo il grave handicap di disporre di pochi impianti di rigassificazione (Olt-Livorno, Rovigo offshore, Panigaglia-La Spezia onshore), avendo bloccato la costruzione di altri impianti per puro principio ideologico.
E poi c'è lo spauracchio ammazzagente: il nucleare, parola che solo a pronunciarla fa venire l'orticaria a tante persone.
Ormai gli impianti di quarta e quinta generazione sono sicuri, cablabili in funzione di diverse esigenze, con un impatto ambientale minimo (che piacerebbe anche a Greta se qualcuno glielo spiegasse). E mentre siamo circondati da centrali nucleari dalle quali importiamo a caro prezzo energia elettrica (Francia, Slovenia), la nostra solita preclusione ecologica ci impedisce ancora una volta di affrontare un problema dai contorni puramente astratti ma dai contenuti pregnanti.
È vero comunque che se oggi volessimo tornare al nucleare (ma mi pare che la nostra classe politica sia fatta di persone senza coraggio e senza visione) dovremmo purtroppo comprare dall'estero non solo la tecnologia, ma anche i tecnici.
La nostra nazione che in passato ha dato un decisivo contributo al nucleare pacifico - e citiamo solo Fermi, Amaldi, Segrè, Maiorana, Pontecorvo e i "ragazzi di Via Panisperna" - ora è assolutamente priva di competenze e anche per tale conoscenza dipende dall'estero.
Tra queste possibili scelte occorre, realisticamente, considerare quelle più percorribili e quella di approvvigionamento del gas da altre fonti sembra la più fattibile.
Nel 2021 abbiamo consumato 76 miliardi di metri cubi di gas, dei quali 3,4 prodotti internamente (nel 2020 il consumo era di 71 miliardi di metri cubi e la produzione interna di 4,1 miliardi). Le nostre fonti - oltre alla Russia per il 43% - sono state Algeria (19%), Qatar (10%), Norvegia (9%), Usa (3%) e altri vari (16%).
Quindi la strada dell'incremento di gas dai paesi diversi dalla Russia e la costruzione di altri impianti per la trasformazione del gas liquido dovrebbe essere la via da percorrere in tutta fretta, senza lungaggini e ostacoli burocratici o ambientali.
Siamo di fronte a una crisi di un settore strategico - quello dell'energia - nel quale è indispensabile perseguire un'indipendenza nazionale e riappropriarci di una sovranità incautamente accantonata.
Altrimenti continueremo, come ora, a restare vassalli di politiche altrui.