«
So per certo che con la strage di Bologna non c'entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini».
Dopo questa frase, certamente enfatica e mal calibrata, pubblicata su Facebook in occasione del 33º anniversario della terribile esplosione del 2 agosto 1980 da Marcello De Angelis, attuale responsabile della comunicazione della Regione Lazio, si è scatenato un putiferio sui media e nella scena politica. Non tanto, o non solo, sull'affermazione apodittica, ma sul fatto che chi ricopre una carica pubblica possa o meno esprimere liberamente una sua opinione, addirittura su una sentenza passata in giudicato, come quella che ha condannato i tre appartenenti ai Nar.
Il quotidiano "La Repubblica" lo ha definito addirittura un "oltraggio", tirando la volata a tanti politici di sinistra, nel quasi silenzio di quelli di destra, intimoriti dal ripetere quello che hanno sostenuto per oltre 30 anni, all'insegna dello slogan «
Nessuno di noi era a Bologna».
Infatti, il dubbio che, per quell'ignobile strage, la "verità processuale" non corrisponda alla "verità storica" lo hanno in tanti, da anni. Seppure pochi abbiano avuto il coraggio di dirlo pubblicamente. Eppure, come ha ricordato con grande onestà, da sinistra, Mattia Feltri sul quotidiano "La Stampa", già anni fa lo pensavano anche alcuni illustri intellettuali di sinistra: Liliana Cavani, Franco Chiaromonte, Ersilia Salvato, Luigi Manconi e Sandro Curzi.
Al netto delle modalità e della forma utilizzati (concetti parzialmente rettificati qualche giorno dopo), a De Angelis va riconosciuto il merito di aver riportato il tema all'attenzione della politica e dell'opinione pubblica. Perché è fondato e legittimo il dubbio che si sia trattato di una "verità processuale" costruita a tavolino, posizione più diffusa di quello che possa aver chiarito il suo post. Proprio per questo, i media del pensiero unico hanno organizzato un aggressivo processo alle idee, affinché quel dogma resti inattaccabile, avendo l'obiettivo di brandire politicamente quel vile attentato come una "spada di Damocle" sulla storia pluridecennale della Destra italiana. Una sentenza utile per tentare di criminalizzare un'intera comunità e relegarla ai margini della politica.
A riprova che i dubbi sulla sentenza, ampiamente diffusi a destra, sono ed erano abbondantemente presenti anche a sinistra, è sufficiente ricordare che, quasi 30 anni fa, una cinquantina tra politici, giornalisti e intellettuali, senza alcuna simpatia per ambienti "neofascisti", diedero vita al Comitato "E se fossero innocenti?", che il 19 luglio 1994 fu presentato in una conferenza stampa. Aiutano a capire la portata di quell'iniziativa alcuni stralci dai discorsi dei tre promotori in quell'appuntamento coi giornalisti. Mimmo Pinto (ex deputato di Democrazia Proletaria, in quota Lotta Continua, poi vice presidente nazionale Arci) ricordò che gli imputati «
hanno sempre gridato forte la loro estraneità alla strage di Bologna. Non sono stati ascoltati. Forse perché erano di destra. Forse perché una storia come quella di Fioravanti e Mambro non merita attenzione da parte dei garantisti. Abbiamo dei dubbi e vogliamo che non ci siano sentenze precostituite. Bisognava trovare qualche imputato di destra da condannare. Vogliamo capire se basta la testimonianza di un solo testimone, più volte contraddettosi, per poter condannare due persone all'ergastolo». Carla Rocchi (ex senatrice dei Verdi e della Margherita, ex deputato dell'Ulivo, ex sottosegretario dei governi Amato e D'Alema), evidenziò che «
la storia processuale di Mambro e Fioravanti è una storia di buchi grandi come case. La ragionevole certezza per la condanna è difficilmente evincibile dell'esame dei dati processuali». Infine, Sergio D'Elia (ex terrorista di Prima Linea poi parlamentare radicale, attualmente segretario dell'associazione "Nessuno tocchi Caino") ancora più chiaramente disse: «
In questo processo prove certe non ci sono, ma labili indizi».
Tra le più significative adesioni al Comitato, Adolfo Bachelet, Liliana Cavani, Don Luigi Di Liegro, Niccolò Amato, Oliviero Toscani, Franca Chiaromonte, Luigi Manconi, Giacomo Mancini, Paolo Tavella, Andrea Colombo, Urbano Stride, Don Sandro Spriano, Mauro Palma, Giovanni Minoli, Letizia Paolozzi, Ersilia Salvato, Francesca Scopelliti, Simonetta Matone, Sandro Curzi, Sandro Provvisionato.
Quando parlano di "un solo testimone" si riferiscono al pregiudicato Massimo Sparti, un delinquente comune al quale Giusva Fioravanti avrebbe raccontato della sua presenza alla stazione di Bologna, insieme a Francesca Mambro, in occasione della richiesta di un documento falso (due giorni dopo la strage), raccontando di essersi "vestito da turista tedesco". In un secondo momento, Sparti, con assoluto sprezzo del ridicolo, precisò "da tirolese". Un tipico abbigliamento utilizzato dai terroristi per non dare nell'occhio.
Oltre ad alcuni dettagli che avrebbero dovuto rendere poco credibile la testimonianza di Sparti, ci furono anche le dichiarazioni di moglie, figlio e domestica a smentire la sua presenza a Roma in quella data, ma ciò non bastò ai magistrati per far crollare la loro irrefrenabile fiducia nell'unico testimone del processo, mantenendolo come decisivo per l'intero impianto accusatorio, seppure senza mai processarlo per la falsificazione del documento.
Nei giorni più intensi della polemica su De Angelis, il banale ritornello utilizzato nella campagna mediatica è stato "le sentenze si rispettano", come se il verdetto di un procedimento giudiziario fosse un postulato indiscusso e indiscutibile. Riferendosi a Sparti, però, altrettanto non può valere per le indagini e gli atti che hanno portato alla sentenza di condanna sulla strage di Bologna, in un processo basato esclusivamente su quella testimonianza.
Infatti, dopo il post al centro della polemica, è tornato a parlare Francesco Ceraudo, ex presidente mondiale dei medici penitenziari e direttore del centro medico del carcere di Pisa, dove il testimone era detenuto al momento della "decisiva" rivelazione, ricordando come «
le cartelle mediche di Sparti furono manomesse», riferendosi all'accertamento di un tumore al pancreas, che comunque "consentì" al pregiudicato di sopravvivere in libertà dal 1982, per 20 anni, compiendo altri reati e morendo a causa di una diversa malattia.
Nel 2019, in un'intervista pubblicata dal quotidiano "Il Manifesto", a cura di Andrea Colombo, Ceraudo aveva già sostenuto che «
il superteste Sparti, unico testimone a carico dei Nar per la strage, fu scarcerato grazie a un certificato falso». Aggiungendo che «
sembra evidente che la scarcerazione sia stata il prezzo della testimonianza contro i Nar, anche perché questo confessò Sparti al figlio» e che i giudici «
mi definirono inattendibile», ma «
non mi perseguirono per falsa testimonianza». In un'intervista a Massimiliano Mazzanti (nel volume "Entri il colpevole" del 2020, autore anche di "Strage di Bologna, la sentenza Bellini: processo ai vivi per condannare i morti" del 2023) aggiunse «
mi fu fatto anche un favore [...], se fossi stato creduto fin da subito, magari oggi non sarei qui a raccontarlo». Infatti, come ricorda Valerio Cutonilli (nel volume "La strage di Bologna tra ricostruzione giudiziaria e verità storica" del 2020, autore anche, insieme al giudice Rosario Priore, del libro "I segreti di Bologna" del 2016), Ceraudo «
condusse per primo gli accertamenti su Sparti escludendo la patologia neoplastica [...], fu rimosso dall'incarico e pochi giorni dopo avvenne l'incredibile [...], che valse la liberazione».
La limpida figura del medico è stata evidenziata anche da Enzo Raisi (nel volume "Bomba o non bomba" del 2012; a breve uscirà la nuova edizione): «
Un uomo coraggioso che denunciava, lui uomo di sinistra ma prima di tutto uomo libero e con grande dignità personale, tutta la questione della falsa malattia di Sparti e delle conseguenze che dovette subire per aver mantenuto la schiena dritta di fronte alle minacce, al timore dei servizi segreti e della Procura. Ceraudo poteva tacere e invece fece quello che sentiva suo dovere, un caso raro in un Paese in cui gli eroi non fanno notizia».
Ad aggiungere mistero a mistero, il figlio di Sparti, Stefano, che nel 2018, in occasione del processo a Gilberto Cavallini, aveva raccontato di una confessione ricevuta dal padre in punto di morte rispetto alla rivelazione su Fioravanti («
Non potevo fare altrimenti») e venne poi incriminato per falsa testimonianza. Ma nello scorso mese di gennaio Stefano Sparti è morto, cadendo dalla finestra della sua casa al settimo piano nel quartiere di Tor Bella Monaca: «
Se il tragico gesto, come a prima vista sembra, fosse volontario, non si tratterebbe comunque di un semplice suicidio. Tra i mille problemi che Stefano stava vivendo e che potrebbero averlo indotto a perdere ogni speranza nell'esistenza, c'è sicuramente fortissima la frustrazione che in lui insorse dopo il vergognoso trattamento che ebbe a subire al processo», ha commentato Mazzanti.
La ricerca della verità non è mai oltraggiosa e non può offendere le vittime di quell'orribile strage e i loro familiari. Coloro che sono convinti che la "verità processuale" non corrisponda alla "verità storica" devono proseguire la battaglia con coraggio e senza alcun calcolo politico. Soprattutto si devono sentire liberi di dirlo pubblicamente senza infingimenti e timori.
P.S.: ci sono alcuni fili rossi che legano la Sardegna alla Strage di Bologna: appuntamento nei prossimi numeri di "Excalibur".