Quella del titolo di questo pezzo è la bellissima preghiera che Leonora, la protagonista femminile de "La forza del destino" di Giuseppe Verdi, innalza dal profondo del monastero nel quale si è rinchiusa: quella che invoca è una pace che sa di non poter raggiungere sulla terra e quindi desidera la morte che la liberi dai suoi tormenti.
Quella della pace è un'invocazione che sempre più spesso appare sui giornali e nei dibattiti televisivi mentre la guerra in Ucraina si avvia verso un inevitabile destino.
Dopo l'invito all'invio di armi, con contorno di oppositori più o meno motivati, ora è il momento di pensare alla pace e anche qui si manifestano i distinguo su quale pace perseguire e a quale prezzo.
Comunque non è questo l'oggetto di questa riflessione.
È curioso che da parte di chi invoca la pace e si oppone all'invio di nuove armi, ma anche da parte di coloro che vedono nell'invio di armi a oltranza il solo modo per giungere alla pace, si faccia riferimento, quasi alla ricerca di una legittimazione al proprio pensiero, al filosofo Immanuel Kant e alla sua opera "Per la pace perpetua".
Kant non fu il primo né il solo ad affrontare l'argomento della pace e della contrapposizione alla guerra.
Un altro importante autore classico, Erasmo da Rotterdam, è stato spesso affiancato e contrapposto al filosofo della tedesca Konigsberg (ora la russa Kaliningrad), in particolare con la sua opera "Querela pacis" ("Il lamento della pace").
Erasmo visse nella prima metà del Cinquecento, in un periodo tormentato dalle lacerazioni religiose provocate dalla Riforma di Lutero, con il quale ebbe accesi dibattiti soprattutto sul tema del libero arbitrio. Erasmo non si schiererà mai apertamente con Lutero, troppo distante dal suo concetto di predestinazione, ma si allontanerà anche dalla violenta conseguente reazione cattolica.
Fu accusato di debolezza, ma il suo rifiuto di schierarsi fu un segno logico del suo rigetto di ogni dogmatismo, rifiuto di ogni forma di violenza e di intolleranza.
Nella sua opera "Querela pacis", pubblicata a Basilea nel 1517, la guerra è vista come pazzia pura, la causa di tutti i mali, follia distruttiva che nasce per il capriccio dei potenti e causa di rovina per i popoli.
La pace è invece fonte di tutti i beni ed Erasmo si appella alla ragione e al Vangelo: l'umanità dell'uomo e la Scrittura di Dio.
«
La pace più ingiusta è meno dannosa della più giusta guerra».
È questo il cuore del pensiero di Erasmo: la necessità della pace, di qualunque pace. È il primo pacifista cristiano precursore di una lunga tradizione che si dipana nei secoli per giungere fino al pacifismo russo di Lev Tolstoj.
Nella visione di Erasmo e secondo la tradizione cristiana, l'uomo nasce buono, ama la pace e la desidera. Posizione antropologica e culturale poi ripresa da Jean Jaques Rousseau nel mito del "buon selvaggio", nel quale si immagina che i primi uomini fossero naturalmente buoni e non conoscessero il conflitto.
Per Erasmo la guerra è sempre il male, il più grande di tutti i mali, e chi giustifica la guerra è sempre complice degli assassini. È necessario scegliere tra omicidio e civiltà, tra la morte e la vita degli esseri umani.
Discorso coerentemente in linea con l'affermazione della dignità umana e dell'umana solidarietà e di opposizione alla violenza e alla menzogna.
Erasmo, nemico dichiarato della guerra, teorico della pace, non si sente di giustificare apertamente il diritto di resistenza attiva e di legittimare così la rivolta del popolo contro il principe tiranno. Convinto assertore del pacifismo e quindi della eliminazione della guerra come mezzo per ampliare e rendere più potenti gli Stati.
Sono evidenti i limiti dell'irenismo erasmiano e più in generale del pacifismo umanistico e cristiano del XVI secolo: è una sorta di integralismo pacifista ancorato all'assunto che la pace è il bene supremo da anteporre incondizionatamente a ogni altro valore, libertà inclusa.
A questa visione fa da contraltare nei diversi dibattiti l'opera di Kant, "Per la pace perpetua": pubblicata nel 1795, si contrappone all'idea di una pace realizzata a qualunque prezzo. Certo, Kant riconosce che la guerra «
è un flagello del genere umano», ma non la considera un male incurabile.
Suona un allarme ad esempio sui rischi di una pace universale e durevole realizzata "sotto un solo sovrano" poiché destinata a sfociare in un orribile dispotismo.
A differenza di Erasmo, Kant partiva da una situazione primordiale di guerra permanente dell'umanità: una lotta di tutti contro tutti, in analogia a Hobbes e al suo "Homo homini lupus" di Plauto.
Condizione di conflitto dal quale si poteva uscire solo dando vita a una costruzione statale che controllasse l'istinto naturale dell'uomo, il quale doveva essere disposto a rinunciare a una parte della propria libertà individuale in cambio della sicurezza della vita e della proprietà.
Lo schema di Hobbes inquadrava questa visione in uno stato assoluto; Kant in uno stato liberale. Ma Kant andava oltre: anche gli stati vivono in uno stato di natura e quindi di guerra potenziale e questo poiché tra gli Stati non vi era nessun contratto reciproco vincolante come quello tra i cittadini e il loro Stato.
Formulò quindi l'ipotesi di una confederazione permanente tra gli Stati senza però dare origine a un potere comune al di sopra degli Stati contraenti.
Un pensiero affascinante e precursore di attuali organizzazioni sovranazionali, che però si basava sul presupposto che tutti gli Stati contraenti adottassero una costituzione repubblicana e quindi sottoposti alla sfera razionale del diritto e non più all'arbitrio dei sovrani e alla concezione proprietaria dello Stato, allora prevalente.
Era una strada difficile da percorrere anche perché nell'uomo combattono perennemente una spinta alla socialità e un profondo egoismo e da questo contrasto nascono l'antagonismo, le disuguaglianze, l'oppressione e lo sfruttamento.
Ma la ragione secondo Kant - e non poteva essere altrimenti vista la coerenza del suo pensiero - spinge gli uomini nella direzione di una civile convivenza sotto l'egida della legge, regolatrice dei rapporti umani in sicurezza e libertà.
L'opera di Kant presenta per la sua epoca degli aspetti curiosi e particolari. Oltre al concetto di una pace istituita tramite l'imposizione di un ordine legale e alla necessità di un diritto nazionale e internazionale, egli vede anche la necessità di un diritto cosmopolitico: secondo questo diritto, ad esempio, ogni straniero ha il diritto di essere accolto ovunque senza ostilità. E inoltre bisogna evitare eserciti permanenti (solo un esercito di volontari per l'ordine interno), non si deve fare debito pubblico per preparare le guerre e perseguire una politica estera isolazionista.
Secondo Kant la fine della guerra tradizionale non dipenderà dagli uomini, ma esclusivamente dalla necessità: la guerra implica un costo sempre più crescente che non potrà più essere sopportato dalla collettività, in termini di mezzi e di vite umane. A questo punto i popoli e gli stessi governanti finiranno per bandire la guerra «
per entrare in una federazione di popoli» (da "Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico").
Il diritto cosmopolitico sarà il logico e storico coronamento del diritto pubblico interno e del diritto internazionale. È questa visione di pace perpetua, felicità dei popoli ed età dell'oro, condizione ideale per il godimento dei beni terreni che ha affascinato e affascina gli innamorati della pace. E quindi viene citato come esempio della "Pace, pace, mio Dio...".
C'è da dire che l'opera di Kant viene pubblicata in un periodo in cui gli scritti inneggianti alla pace fioriscono numerosi: lo spirito illuminista e razionale della seconda metà del Settecento favoriva il sorgere di opere nelle quali la ragione dell'uomo era in grado di superare ogni ostacolo. Erano accolti in genere con molto scetticismo e ironia, considerando anche il periodo turbolento e bellicoso che attraversava l'Europa.
Kant era ovviamente consapevole di tutto ciò e giocò in maniera evidente anche nella sua opera e non nascose ciò che faceva.
Il titolo originale dell'opera di Kant infatti suona "Zum ewigen Frieden": esso viene in genere tradotto in "Per la pace perpetua", mentre quello corretto sarebbe "Alla pace perpetua". È lo steso Kant a spiegare l'uso del termine "Zum": esso generalmente introduce i nomi di locande, osterie, alberghi: "Al cervo d'oro", "Al fiume impetuoso" e simili. Quindi correttamente "Alla pace perpetua".
Inoltre nel prologo alla sua opera lo stesso Kant afferma, nelle prime righe:
«
Non vogliamo indagare se una simile scritta satirica messa da un trattore olandese a un'insegna su cui era dipinto un cimitero si applichi agli uomini in generale o ai Capi di Stato in particolare, che non sono mai sazi di guerre, oppure solamente ai filosofi che vagheggiano quel dolce sogno».
E quindi quell'"ewigen Frieden" è sì una pace perpetua, ma una "pace eterna", condizione dei defunti e quiete dei cimiteri.
Edificante appello pacifista, manifesto rivoluzionario, punto di riferimento fondamentale per le relazioni internazionali, oppure banale proposizione per mostrare che pace e morte si identificano?
E allora: "Per la pace perpetua" o "Alla pace eterna"?
Ai dotti discettatori di questi giorni la risoluzione del quesito.