Sopra: quando l'Apocalisse?
Sotto: una tendenza alla crescita esponenziale
Ormai si sono spente le luci sul G20 di Roma e sul Cop26 di Glasgow: i potenti della terra, dai 20 di Roma ai quasi 200 della Scozia, si sono incontrati, hanno parlato, predicato, auspicato, promesso ed emesso proclami. Tutti sorridenti.
L'incontro più importante e maggiormente pieno di problemi era quello sul clima di Glasgow e considerando l'esito degli analoghi precedenti summit c'è poco da essere ottimisti.
L'esito appariva scontato: quando così tanti paesi, con condizioni di vita decisamente diverse, discutono di problemi che hanno un impatto molto pesante nello stile di vita quotidiano dei propri cittadini, è ben difficile trovare un punto di convergenza comune.
Dal primo incontro del 1995 a Berlino, fino all'ultimo di Madrid, sono stati firmati protocolli, piattaforme, mandati, impegni, ma senza alcun tangibile risultato, con il gas serra che continua ad aumentare placidamente e con esso il riscaldamento della terra.
Occorre considerare che questi incontri - prima demandati agli esperti e ora ai capi di Stato e simili - sono diventati di chiara impronta politica e - ben oltre le strette di mano e i sorrisi - non sono incontri tra amici ma un disincantato tavolo di concorrenti, nel quale ciascuno opera per ottenere il massimo vantaggio o il minor svantaggio per la propria nazione.
E poi ci sono gli assenti, ed era scontato che ci fossero, e così importanti.
Per noi Europei la strategia è abbastanza chiara: abbiamo accumulato CO2 per oltre un secolo grazie alla capillare rivoluzione industriale e dagli anni '80 stiamo controllando le nostre emissioni. Con l'8% delle emissioni globali l'Europa non è certo un problema e qualunque azione di contenimento possa mettere in campo non può certamente essere la soluzione del paventato cataclisma.
Ma la nostra coscienza etica ci impone di fare qualcosa e così - insieme agli altri leader occidentali - abbiamo promesso, tra le altre cose, i soliti 100 miliardi di dollari, come se la soluzione fosse dare quattrini ai paesi che hanno più problemi di noi.
La Cina è responsabile di circa il 30% delle emissioni globali di CO2 di origine antropica e tutti puntano il dito accusatorio contro il Dragone, tra l'altro assente agli incontri.
Fino al 2000 le sue emissioni erano in crescita e in linea con quelle europee, poi negli ultimi 20 anni - a fronte di una stabilità delle nostre - esse sono triplicate.
In questi 20 anni oltre 800 milioni di cinesi sono usciti da una povertà assoluta grazie a un poderoso sistema industriale messo in campo: il problema è che l'energia necessaria per farlo funzionare è ottenuta bruciando immense quantità di carbone e ne serve ancora, da qui l'avvio alla costruzione di nuove centrali e all'incremento di produzione di almeno 100 milioni di tonnellate.
Qualcuno pensa che questo immenso apparato possa modificarsi in breve tempo?
Se anche Xi Jinping fosse stato presente cosa avrebbe potuto promettere se non una riduzione delle sue emissioni in un futuro così lontano da apparire ridicolo e provocatorio?
Del resto impegnarsi a limitare a 1,5 gradi centigradi l'aumento della temperatura del pianeta intorno alla metà del secolo vuol dire ben poco. Certo, l'impegno è stato firmato da tanti paesi, ma ne mancano altri importanti.
Nell'altro impegno - quello della riduzione dell'uso del carbone - mancano le firme di Cina, India, Stati Uniti e Australia.
Oltre 100 leader hanno inoltre preso l'impegno di stroncare la deforestazione del pianeta entro il 2030, con sforzi finanziari per circa 20 miliardi di euro. Tra i firmatari ci sono anche il Brasile (con la sua foresta amazzonica), Russia, Cina. Colombia, Australia, Stati Uniti e altri. Promessi grandi aiuti alla Repubblica Democratica del Congo, il cui bacino fluviale è il secondo al mondo.
Ci sono state altre intese, come quella del taglio del 30% delle emissioni di metano entro il 2030.
Grandi, anzi grandissimi impegni, presi da tanti paesi del mondo, ma non da tutti.
A sorpresa, alla fine di una giornata vuota, dall'ombra è uscito il capo dei negoziatori cinesi, che ha annunciato una «
Dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti per il rafforzamento dell'azione climatica»: dentro c'è di tutto. Dalle emissioni di metano alla protezione delle foreste all'uscita graduale dal carbone. Vedremo.
Ridurre le emissioni di CO2 si può certamente fare - anzi si deve certamente fare - ma questa operazione ha un costo e qualcuno lo deve pur pagare. Non è la stampa di carta moneta che può magicamente risolvere il problema.
Alla fine delle due settimane di colloqui, il comunicato finale ha ancora di più smorzato ogni sorriso (tranne quello di Boris Johnson): l'India, a proposito del carbone, ha fatto sostituire al paragrafo 36 il termine "phase out" (uscita) con il termine "phase down" (diminuzione), con il sostegno di Pechino.
Per quanto riguarda le sovvenzioni ai paesi più colpiti dalle modifiche energetiche future, i 100 miliardi di dollari non hanno più una data certa di avvio. Si vedrà.
L'appuntamento è nel 2027 in Egitto.
I tre grandi negazionisti - Cina, India e Russia - non possono certo impegnarsi a bloccare o far retrocedere il livello di vita dei propri cittadini promettendo loro un futuro più verde: per questi paesi a uccidere non è il cambiamento climatico ma la povertà.
Il loro dilemma - espresso in termini di razionalità - è il cosiddetto "differimento della gratificazione o preferenza temporale e sconto del futuro".
Tanto è più lontano il futuro (e quindi il beneficio) tanto più facile (e ipocrita) è assumere impegni. È ciò che i presenti agli incontri hanno fatto e che gli assenti non hanno fatto.
Draghi ha giustamente messo in evidenza che sul disastro ambientale c'è una maggior percezione globale, ma nessuno può affrontarlo da solo.
Restando nell'ambito dei princìpi di razionalità e della "teoria dei giochi" (in particolare il "dilemma del prigioniero") vale il ragionamento che il tornaconto di tutti passa per la cooperazione, nella unicità delle scelte e delle azioni.
La complicazione di questo tipo di negoziati è che i paesi del mondo hanno delle condizioni di partenza diverse tra loro.
Tra Asia e Africa un miliardo di persone vivono ancora in povertà e probabilmente, considerando la latitudine alla quale vivono, saranno quelle destinate a sopportare maggiormente l'impatto del cambiamento climatico.
Sono persone - un miliardo - che non possono certamente pensare a come vivranno il loro futuro, preoccupate di sopravvivere al presente.
Ci avviamo a raggiungere gli 8 miliardi di abitanti di un pianeta che sembra restringersi sempre di più.
L'agricoltura e l'allevamento sono i responsabili per il 18% della CO2, il 57% deriva dalla produzione di energia per l'industria, gli edifici, le attività commerciali e altro, il 7% dalle auto.
Siamo disposti ora a rinunciare a qualcosa?
Dovremmo spostarci meno in auto e in aereo, utilizzare maggiormente i mezzi pubblici, sprecare meno risorse facendo la raccolta differenziata ed evitando lo spreco di cibo e altre cose che dovremmo produrre di nuovo. Cambiare stile alimentare con meno carne rossa o altri cibi, la cui produzione genera grandi quantità di emissioni, acquistare prodotti locali così da ridurre i trasporti su gomma.
Certo, si può fare e sono sicuro che molti di noi lo stanno già facendo.
Ma sarà sufficiente?
Una considerazione personale a margine. Non tutto il mondo scientifico concorda con le conclusioni e le strategie messe in campo in questi mastodontici vertici.
Infatti gli scettici sostengono che qualunque modello teorico con più di tre variabili è intrinsecamente indeterminabile: il modello meteorologico ha tre variabili, quello climatico più di cinque.
Inoltre affermano che le attività umane incidono sul clima solo per il 5% e il 95% dipende invece da fenomeni naturali legati all'attività del sole.
In Italia i sostenitori di questa tesi sono, tra gli altri, il professor Carlo Rubbia (premio Nobel per la fisica), il professor Antonio Zichichi (presidente del "World Federation of Scientist").
Attenti a demonizzare la CO2 e l'effetto serra: la prima è il cibo per le piante e il secondo consente alla terra di mantenere una temperatura vivibile per la specie umana e animale.
Il problema più importante che dovrebbe essere discusso in questi vertici è quello dell'inquinamento (pesticidi, defolianti, concimi aggressivi) e quello della fame, che ogni anno uccide soprattutto le future generazioni.
Questi summit così importanti sono inoltre alquanto paradossali. Nel 1972, Maurice Strong, direttore Ambiente dell'Onu, affermò: «
Ancora dieci anni così, poi sarà la fine del mondo». Sono passati quasi cinquant'anni.
Boris Johnson, aprendo i lavori di Glasgow, ha affermato: «
Manca un minuto alla mezzanotte dell'Apocalisse», il famoso "Doomsday Clock", come i predicatori medievali. E va bene.
Joe Biden, per spostarsi a Roma insieme al suo seguito, ha usato ottantacinque automobili e non erano delle city car. La nostra cara Greta deve aver avuto un colpo al cuore.
Per andare a Glasgow e lanciare l'allarme sull'apocalisse climatica verso la quale il mondo sta precipitando a causa dei cambiamenti climatici, i nostri politici, i grandi personaggi mondiali dell'industria e degli affari, hanno utilizzato oltre 400 jet privati disperdendo nell'aria oltre 13 mila tonnellate di emissioni di CO2.
La sfilata era guidata da Jeff Bezos con il suo Gulf Stream da 56 milioni di euro.
Sia Bezos che altri presidenti o amministratori delegati di grandi industrie e società naturalmente hanno una grande "vocazione ambientalista".
Bezos - insieme a Bill Gates ed Elon Musk - è uno dei tre "cavalieri verdi" che regalano soldi per fini ambientalistici (risparmiando sulle imposte), ma la cui attività è tutto fuorché "verde".
Salveranno certamente la terra.