EXCALIBUR 68 - marzo 2012
in questo numero

Un capolavoro: "Vita e Destino" di Grossman

Totalitarismi del XX secolo allo specchio

di Angelo Marongiu
Sopra: Vasilij Grossman (Berdicev, Ucraina 1905 - Mosca 1964)
Sotto: la copertina di "Vita e destino"
Anno 1961: il capolavoro di Vasilij Grossman, "Vita e destino" è giudicato inadatto alla pubblicazione.
La ragione è la solita nella cupa e tenebrosa Urss di quei tempi: motivi ideologici e politici, niente di più. Anche la Russia post-staliniana perpetua i riti dell'oppressione più buia, nel continuo processo di soffocamento della libertà del suo popolo.
Suslov, uno dei capi dell'apparato propagandistico staliniano, definì il libro «un pericolo che si aggiungeva a quello della bomba atomica».
"Vita e destino" è il racconto corale di una famiglia russa durante l'assedio di Stalingrado - sfida immane che un intero popolo è chiamato ad affrontare e necessariamente vincere se non vuole essere sopraffatto - ma è soprattutto il racconto di esistenze di tanti (Strum, Darenskij, Krymov, Zenya e altri) che si dipanano mettendo in gioco affetti, certezze, identità.
Occorre sfuggire al fuoco delle armi nello scontro tra i due totalitarismi, e al freddo e alla fame del gelido inverno del 1942, ma bisogna anche riuscire a restare integri e sfuggire alle delazioni e allo spietato apparato burocratico sovietico e riuscire a rimanere sé stessi nel pervasivo veleno dell'ideologia rivoluzionaria.
Il mondo descritto da Grossman lo colloca alla pari di George Orwell o di Aleksander Solzenytsin: essi non si limitano a denunciare le menzogne e la violenza che ha caratterizzato il sistema sovietico, ma hanno incentrato la loro visione sull'uomo, sul singolo uomo sperduto nella macchina distruttrice del totalitarismo e sul dono più prezioso della vita: la libertà di essere sé stessi e di scegliere il proprio destino.
Ci sono dei libri che non sono dei semplici romanzi, libri che hanno la capacità - il dono - di racchiudere un mondo intero e danno a chi li legge una sensazione di completezza, come se niente più potesse essere aggiunto.
Mentre le case di Stalingrado crollano e si sbriciolano sotto i bombardamenti e viene descritta mirabilmente la resistenza dei Russi contro i Tedeschi (l'umiliazione della sconfitta e poi la tenace resistenza e infine la vittoria fino alla cattura del generale Paulus che segnò l'inversione delle sorti della guerra e diede il via all'Armata Rossa verso Berlino), Grossman segue le vicende di una miriade di personaggi: dagli sfollati da Mosca a Kazan, dai deportati dal ghetto verso le camere a gas, ai deportati nei lager stalinisti.
Ci sono frasi illuminanti; in un gulag stalinista un deportato dice a un compagno: «Invidio chi sta nei lager tedeschi. Che bellezza! Sapere che a picchiarti è un nazista. A noi, invece, è toccata una sorte tremenda: siamo prigionieri dei nostri stessi compagni».
Grossman ha anticipato una valutazione storica - ancora oggi, talvolta, non accettata - sulla sostanziale simmetria tra comunismo e nazismo.
In un lager nazista Grossman fa incontrare il comandante del campo Liss e un vecchio bolscevico, Mostovskoj. Nel dialogo inizialmente stentato tra i due, ma è soprattutto Liss che ha bisogno di parlare, c'è una sorta di lascito testimoniale. Liss, il nazista, dice infatti al bolscevico: «Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? [...] È una sorta di paradosso: se perdiamo la guerra, la vinciamo e ci sviluppiamo in un'altra forma pur conservando la nostra natura [...]. Oggi vi spaventa l'odio che proviamo per gli Ebrei, ma domani potrete far tesoro della nostra esperienza».
È quella del terrore che annienta gli uomini - nei lager o nei gulag - solo perché appartengono a una classe sociale o a una razza o a un'etnia diversa e gli uomini chiudono gli occhi per non vedere, per non sentire, dimenticandosi di far parte della razza umana.
Grossman svela con implacabile acutezza la loro natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: ammantarsi di bene, un bene astratto e universale, nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza.
Un ultimo punto: il KGB sequestrò il romanzo e la macchina da scrivere di Grossman e questo libro non avrebbe mai visto la luce se l'autore non avesse consegnato tre copie a tre amici. Copie che rimasero nascoste per quasi vent'anni. Una di queste arrivò in Europa in microfilm: Grossman intanto morì nel 1964, a 59 anni. Il romanzo vide la luce a Losanna, poi vi fu un'edizione francese e una italiana: l'accoglienza fu tiepida. I tempi non erano ancora maturi per accettare un accostamento così sacrilego tra il nazismo e il comunismo. Mancava il coraggio.
Coraggio che ancora oggi manca a qualcuno.
Nella commemorazione degli eccidi delle foibe, il nostro beneamato presidente Napolitano ha parlato di stragi commesse da &171#;derive nazionalistiche europee»: le parole comunisti e comunismo non le ha neppure nominate, pur essendo un esperto in materia.
È solo questione di coraggio. E di dignità.
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