Nei paesi arabi, l'abbattimento dei vecchi regimi non ha portato sensibili miglioramenti alla libertà dei popoli
Un anno fa - e 8.000 morti fa, oltre 500 dei quali erano bambini - aveva inizio la rivolta siriana. A oggi non si intravvede né una fine né una qualsiasi soluzione. Certo, la Siria è apparentemente isolata, sia la Lega Araba che l'Onu hanno imposto sanzioni, ma Russia e Cina hanno posto il loro veto e il presidente Assad è ancora saldamente al potere.
Questa enorme confusione internazionale non fa che favorire Assad e il suo regime, un miscuglio incredibile di spietatezza, equivoci diplomatici e divisioni interne settarie.
Eppure non era difficile prevedere che soprattutto la Russia avrebbe opposto il suo veto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu contro qualsiasi intervento diretto in Siria, nonché contro qualsiasi risoluzione di condanna troppo esplicita.
Il regime di Assad è un partner commerciale di tutto rispetto (in particolare nel campo dell'industria bellica) con un giro d'affari che supera i 4 miliardi di dollari. Inoltre il porto di Tartus è l'unica base navale russa che si affaccia sul Mediterraneo, e non a caso l'8 gennaio la Russia vi ha spedito un'intera flotta navale.
Altra scelta miope da parte dell'occidente è stata quella di delegare Turchia e Qatar come finanziatori e fornitori di armi per gli insorti. Questi paesi hanno naturalmente privilegiato i gruppi islamisti contigui ai Fratelli Musulmani, che però in Siria non costituiscono un gruppo egemone. Esiste infatti un'opposizione laica legata al Comitato di Coordinamento Nazionale decisamente contraria a qualunque intervento esterno. Queste divisioni interne ostacolano ogni efficace contrasto armato nei confronti dell'esercito di Damasco.
Israele - l'unico in grado di fornire informazioni dettagliate sulla situazione interna della capitale - resta in attesa e non riferisce alcuna notizia in suo possesso: il dopo Assad lo preoccupa, visti i risultati scaturiti dall'evoluzione della cosiddetta "primavera araba" negli altri paesi dell'area.
L'equivoco è come sempre colossale: gli occidentali continuano ad attribuire a questi movimenti una spinta rivoluzionaria in nome della democrazia e dei diritti umani.
Non esiste una via islamica verso la democrazia né tantomeno una conclamata sete di libertà e democrazia, nel senso inteso in Occidente. È semplicemente la manifestazione della più antica, micidiale e irriducibile delle divisioni del mondo arabo: la contrapposizione tra sunniti e sciiti.
Il governo di Damasco è alleato dell'Iran sciita ed è dominato da una minoranza alawita (una setta sciita alla quale appartiene il 12 per cento della popolazione) che si contrappone alle proteste di un paese per il 70 per cento sunnita.
Quindi occorre molta attenzione: la Siria è un altro paese nel quale le due grandi potenze islamiche si fronteggiano per il predominio del mondo islamico: l'Iran, repubblica islamica sciita, e l'Arabia Saudita, sunnita e custode dei luoghi sacri dell'Islam.
In questa sorta di risiko, si inserisce volentieri la Turchia, che non si fa sfuggire nessuna occasione per aumentare la sua influenza politica, militare, diplomatica ed economica nel Medio Oriente.
Questo ulteriore campo di battaglia ideologico tra sunniti e sciiti rischia di contagiare l'Iraq, altro paese nel quale il 35 per cento dei sunniti fronteggia il 65 per
cento di sciiti.
Il regime di Damasco può ancora contare sull'appoggio dei cristiani e di buona parte dei Curdi, nonché di tutte quelle famiglie sunnite che hanno intessuto lucrosi affari con i vertici militari ed economici del regime, che ha sempre vissuto indenne per mezzo di questi legami trasversali basati sull'interesse e la corruzione.
Le più grandi e popolose città della Siria sono state soltanto sfiorate dalle manifestazioni anti-regime e gli oppositori assediati e massacrati a Homs, Zabadani sono semplicemente abbandonati da tutti. L'inutilità del loro sacrificio è semplicemente lo specchio della miopia e del disinteresse del mondo occidentale e arabo.