A sinistra: Giuseppe Biasi
Sotto: il dipinto "Fanciulle al lavatoio" (tempera su tela del 1913)
Giuseppe Biasi nasce a Sassari nel 1885. Studente non brillante, esordisce giovanissimo nel disegno e nella caricatura. Nella Sassari del 1900 conosce ed è amico del futuro pittore Filippo Figari, dello scultore nuorese Francesco Ciusa, che ospita nella sua casa, e di altri artisti e intellettuali fra cui Barone Scano e Salvatore Ruju.
Frequenta anche il circolo repubblicano "Giuseppe Giordano", che esprime idee e posizioni mazziniane, antiparlamentari e antiistituzionali.
Nel 1905 è a Roma per compiere gli studi in Giurisprudenza. Qui vive nella "
nouvelle vague" sarda trapiantata a Roma, che fa capo a Grazia Deledda. Ritrova Ruju, Francesco Ciusa, oltre a vari artisti e intellettuali quali Carlo Aru, Stanis Manca, Josto Randaccio. Frequenta vari circoli culturali romani, dove ha occasione di conoscere Pirandello, i pittori Boccioni, Severini, Mario Sironi.
Inizia la collaborazione con alcuni giornali: "La Patrié", in lingua francese, e "L'Avanti della Domenica". A vent'anni tiene la sua prima mostra al teatro Verdi di Sassari: espone duecunto caricature. Il successo non lo abbandonerà mai sino alla fine dei suoi giorni: in Sardegna, in Italia e all'estero.
Partecipa alla prima guerra mondiale ma non é interventista, a differenza di tanti suoi amici, fra cui Mario Berlinguer, padre di Enrico. Vi rimane ferito.
Nel 1919, in pieno clima nazionalista, a seguito dell'atteggiamento sfavorevole assunto a Versailles dagli alleati nei confronti dell'Italia, Biasi assume una posizione tutta sua, ma già contenente in nuce la sua tragica scelta finale. Pur partecipe del moto di ostilità nei confronti dei Francesi e degli Inglesi, simpatizza però per la Germania e si dice addirittura contento per gli esiti della conferenza di Versailles, che, secondo lui, condurranno l'Italia a fianco della Germania: «
Sarà così possibile - scrive a un amico -
che si formi una coscienza collettiva che non c'è mai stata e che si ritorni definitivamente a marciare con la Germania, perché qualsiasi cosa succeda là è l'avvenire nostro».
Biasi è persona coltissima: assorbe in gioventù autori quali Nietzsche, Schopenhauer, Marx, Engels, Stirner, Bakunin, nonché il meglio della cultura francese a cominciare da Sorel. Ma è da Nietzsche che Biasi trae molti dei "Canoni" dell'arte: dai caratteri aristocratici dell'uomo antico all'esaltazione delle energie vitali e degli istinti non imbrigliati dalla concezione del peccato originale. Biasi si affaccia al mondo dell'arte in una Sardegna che agli inizi del XX Secolo reagisce energicamente alla condanna pronunciata dagli intellettuali positivisti nei confronti dei Sardi, descritti come delinquenti, banditi e selvaggi privi di una identità e di una propria cultura.
Il ribaltamento di questa condanna inizia in letteratura con Grazia Deledda e Sebastiano Satta, prosegue in politica con Attilio Deffenu, per esprimersi poi nell'arte con Biasi. Il pittore sassarese ha idee molto chiare sul Sardo. «
L'uomo non è l'uomo che si trova tutti i giorni, un gentiluomo che viene qui capisce subito che qui c'è una razza. Il popolo sardo gli appare come una umanità omerica e pre-socratica, ricca di energie vitali, forte di una generosa barbarie»: cosi scrivono Giuliana Altea e Marco Magnani nel bellissimo volume intitolato a Biasi, edito dal Banco di Sardegna nel 1998.
Il più grande desiderio di Biasi é «
essere pittore e rivelatore della Sardegna fondata su una cultura pastorale e contadina finalmente ribaltata in positivo, da segno imbarazzante di arretratezza e miseria a simbolo di una civiltà antichissima. La sua arte si propone così come importante fattore di ideologizzazione, in grado di contribuire al processo di un nuovo senso di identità che impegna già da qualche tempo gli intellettuali sardi». La gente sarda, per Biasi, scaturisce dall'incontro e dal sovrapporsi di tante antiche civiltà mediterranee: ne è venuta fuori una razza nobile e fiera di altissime capacità creative come testimonia l'austera e smagliante bellezza dell'arte popolare; una stirpe aristocratica, d'istinto non servile, anche nelle condizioni più disperate.
Biasi sarà sempre un accanito difensore dell'arte sarda, diventerà nemico feroce del
cosmopolitismo artistico, sino al punto di invocare l'arte di stato e a manifestare anche a partire dal 1935 tendenze antisemite, scagliandosi contro il monopolio ebraico dell'arte (ditta Coen). Cosa, questa, che per qualche tempo gli procurò anche l'appoggio del quotidiano di Farinacci "Il regime fascista".
Non si può certo affermare che Biasi sia un fascista impegnato, anzi Enrico Endrich, che di certo lo conosce bene, in un suo articolo su "Almanacco di Cagliari", lo definisce "fascista non bollente", eufemismo per dire che non lo è affatto. «
Antifascista sempre e di un filogermanesimo del tutto parolaio e culturale»: cosi lo definisce il suo amico Tavolara.
Tant'è che in Sardegna, allorché concorra a incarichi nel sindacato degli artisti, gli viene sempre preferito il pittore Filippo Figari, ritenuto invece fascistissimo. Costante è invece il suo
filogermanesimo e anche il suo antisemitismo. Nel dicembre del 1940 scrive al pittore e amico Alessandro Pandolfi: «
È ancora gente che vive del riflesso parigino, oggi tramontato per almeno un secolo. E al richiamo parigino si sostituirà quello di Berlino o quello di Monaco. Verrà dell'ordine dal di là delle Alpi, te lo assicuro. Lo leggo giornalmente ciò che si scrive lassù e vedo che le idee sono chiare e riguardano tutta l'Europa». E sempre a Pandolfi, nell'aprile del 1941: «
Sono sempre, malgrado ciò, sicuro che la guerra e l'inevitabile vittoria spazzeranno via i resti del movimento giudaico nell'arte italiana. Comunque certamente il centro più importante degli artisti in Europa sarà Monaco; Milano e Parigi si equivarranno».
L'8 settembre lo trova a Biella, dove da alcuni anni si recava temporaneamente per eseguire opere su commissione e anche per fare delle esposizioni.
Aderisce subito alla R.S.I.. Giuliana Altea e Marco Magnani spiegano così il suo stare a Salò. «
Ma in piena guerra partigiana non ha esitato a schierarsi dalla parte verso cui lo traevano la cerchia delle sue amicizie, le sue consuetudini di vita, le recenti simpatie per l'alleato germanico, un malinteso senso di cavalleresca lealtà verso il vinto e di vergogna per lo spettacolo di una Italia sprofondata nel fango, prostrata e miserabile.
Se è oggi impossibile negare, come si fece nell'immediato dopoguerra, quando se ne volle sottolineare la totale estraneità alla politica, l'essere di Biasi con gli ambienti repubblichini, è pur vero che il pittore non svolse nessuna politica attiva salvo l'intrattenersi con gli ufficiali del comando tedesco che stava nel suo stesso albergo e salvo aver svolto qualche volta la funzione di interprete, visto che conosceva bene la lingua tedesca».
Tutto ciò, a ogni modo, gli costa molto caro. Lo arrestano il 2 maggio del 1945 con l'accusa di essere stato spia delle S.S.. Ad arrestarlo è un pittore: Guido Mosca, membro della polizia partigiana, della cerchia del critico d'arte nonché sacerdote don Vernetti, che in passato aveva duramente attaccato l'arte di Biasi, ricevendone, per altro, pungenti e adeguate risposte. Durante gli interrogatori viene picchiato. Dopo 18 giorni di carcere viene fatto uscire insieme a un gruppo di altri 28 prigionieri politici, per essere condotto a un vicino campo di concentramento.
Ma mentre attraversano a piedi il paese di Andorno, il gruppo viene assalito da una folla che urla: «
Torturatori!» con una violenta sassaiola: quattro persone rimangono ferite, di cui una in modo grave. Biasi, rimasto indietro ai compagni perché claudicante a seguito della ferita riportata in guerra, viene colpito alla nuca da un grosso sasso legato a una cinghia: muore sul colpo.
Il suo corpo viene portato al cimitero di Andorno, dove rimane senza sepoltura per quattro giorni. Gli amici biellesi provvedono poi alla tomba dove le spoglie dell'artista riposeranno sino al 1994, quando la sua salma sarà traslata a Sassari.