Sopra: stemma della Brigata Sassari
Sotto: militare sardo della Grande Guerra con il fratello
In tutti i dibattiti sulla Sardegna emergono puntualmente due elementi di discussione: il primo, di dimensione economica, si focalizza sull'esigenza di dare soluzione ai problemi della continuità territoriale, dei trasporti, della zona franca, del credito e del costo energetico; il secondo, di respiro politico, ha per oggetto quella struttura federale nel cui ambito la nostra Isola dovrebbe trovare collocazione avocando a sé ogni possibile competenza, eccezion fatta per la difesa, l'amministrazione della giustizia, la moneta, la politica estera e, con gli adeguamenti del caso, la pubblica istruzione e l'assistenza sanitaria.
Tuttavia tra queste problematiche se ne può individuare una che, per la sua valenza sia economica che politica, interagisce in entrambi i settori. Si tratta di un aspetto che attiene alla difesa e, in un più circoscritto ambito sardo, al problema della Brigata "Sassari".
Sarebbe ripetitivo soffermarsi sui contenuti spirituali e storici che la "Sassari" riveste per noi Sardi. Di questi valori furono artefici e custodi i nostri padri che ne hanno trasmesso l'eredità genetica. Ma sono gli aspetti sociali, economici e demografici che meritano qualche riflessione, da cui partire per tracciare una linea d'azione che, oltre a implicare nell'immediato risultati di concreta rilevanza, rappresenti, in prospettiva, un investimento di più ampio respiro.
L'esperienza del primo dopoguerra fu testimone della forza trainante, che, nata nel grembo della "Sassari", caratterizzò lo spirito dell'Associazione Combattenti e del Partito Sardo d'Azione, nonché dei rispettivi leaders, molti dei quali erano, come noto, ex ufficiali della brigata. Si può affermare che l'anima della "Sassari" si identificò per lungo tempo con l'anima del popolo sardo.
Oggi, fatte le debite proporzioni e trasposizioni, è possibile favorire un'esperienza similare, anche se in una dimensione meno totalizzante.
Oggi nella "Sassari" abbiamo circa 1500 volontari (o posti di lavoro, che dir si voglia) suddivisi tra Cagliari e Sassari. Circa altri 500 volontari sardi prestano servizio in reparti stanziati nella Penisola e ambiscono pressoché tutti, come i loro padri, a prestare servizio nella "Sassari". La Sardegna potrebbe contare su un altro migliaio di posti di lavoro qualora la brigata, oggi incompleta, fosse portata al 100% dell'organico. È da precisare che quest'ultimo migliaio di posti di lavoro si avrebbe solo se anche a questi potenziali volontari fosse garantita la possibilità di prestare servizio in Sardegna.
E qui sta il "busillis".
I Sardi che prestano servizio nel Continente, infatti, sono penalizzati da una serie di costi e disagi legati ai trasporti aero-marittimi e alle spese connesse con il loro status di "single", visto che l'insularità divide dai rispettivi nuclei familiari di origine.
In concreto: le spese sostenute da un volontario di Assemini in servizio a Cagliari nel 151º reggimento sono di gran lunga inferiori a quelle che penalizzano un volontario di Sestu in sevizio ad Aosta in un reparto alpino.
L'inevitabile domanda che ne consegue è: perché il volontario di Sestu deve prestare servizio ad Aosta? Se questo giovane operasse in Sardegna potrebbe:
- concorrere al completamento della brigata "Sassari";
- addestrarsi in condizioni ottimali grazie alla disponibilità nell'Isola dei più grandi poligoni nazionali (Capo Teulada, Perdasdefogu, Capo Frasca e altri minori);
- essere prontamente rischierabile in qualunque scacchiere operativo grazie alla presenza nell'Isola di quattro porti e di altrettanti aeroporti;
- rappresentare una ricaduta economica in quanto la sua retribuzione (oltre un milione e mezzo mensile, al netto di vitto e di alloggio, e circa il triplo in caso di impiego all'estero) si riverserebbe nell'economia locale.
Attualmente sono gli esercizi commerciali non sardi ad avvantaggiarsi di questa ricaduta (si pensi a ristoranti, bar, pizzerie, lavanderie, distributori di benzina, autorivenditori, ecc. di cui il volontario è potenziale cliente).
Qualora la "Sassari" fosse completata, la conseguente ricaduta economica, considerando l'indotto globale connesso con la vita della brigata, sfiorerebbe i
duecento miliardi l'anno.
È significativo confrontare l'entità di questa somma con quella rappresentata dalle indennità che lo Stato corrisponde annualmente a ciascuno dei dodici comuni sardi interessati (o penalizzati, come lamentano alcuni sindaci) dalla presenza dei poligoni prima citati: mediamente trecento milioni. In totale, le indennità assommano quindi a
tre miliardi e mezzo l'anno per l'intera Sardegna; l'equivalente, sia detto per inciso, di circa un centesimo di quanto lo Stato introita
settimanalmente per il gioco del lotto e affini. In altri termini si tratta di un importo a metà tra il ridicolo e l'offensivo.
Ma, prescindendo dall'aspetto economico, è meritevole di attenzione un'altra più significativa potenzialità. Si tratta di valutare l'impatto che nel nostro tessuto sociale, culturale ed economico potrebbe determinarsi per la presenza di queste migliaia di giovani che, nel corso della loro vita militare, maturano una vasta gamma di esperienze e acquisiscono conoscenze notevoli sotto il profilo sia umano che professionale. Questi ragazzi, infatti, hanno la possibilità di venire a contatto con soldati di altri paesi che concorrono a formare i contingenti operanti sotto l'egida dell'O.N.U. e della N.A.T.O. o che partecipano ad attività addestrative in un contesto internazionale. I volontari, inoltre, hanno l'opportunità di frequentare diversi corsi di specializzazione, di avvicinarsi all'informatica, di imparare lingue straniere, di praticare discipline sportive ecc.. Proprio i volontari sono l'obiettivo di un programma finanziato con fondi comunitari e finalizzato alla conoscenza delle lingue e dell'informatica.
Il problema della "Sassari", nel suo complesso, è così sintetizzabile: considerata la disponibilità di volontari e la presenza nell'Isola di poligoni addestrativi, è inaccettabile la penalizzazione derivante dal mancato completamento delle brigata. Altrettanto ingiusto è che un numero cospicuo di giovani vengano sottratti a una popolazione di appena 1,6 milioni di abitanti. In questo contesto non si capisce perché la classe politica che ha governato la Sardegna negli ultimi anni non abbia, nonostante i reiterati suggerimenti, sposato e sostenuto questa causa. È possibile che ciò sia dipeso dal fatto che il buonismo delle sinistre ha dimostrato da sempre scarsa compatibilità con le forze armate. Il soldato è stato visto soprattutto come un intralcio, una presenza scomoda. Nella più favorevole delle ipotesi è stato accettato solo se disponibile a svolgere ruoli non specificatamente militari, quali i concorsi a favore di altre istituzioni dello Stato.
La divisa è stata identificata prevalentemente con le servitù militari alle quali sono state fatte risalire molte responsabilità per il mancato sviluppo di vari comparti dell'economia isolana.
In altri termini si è imputato a quell'1,48% del territorio sardo rappresentato dal demanio e dalle servitù militari di impedire di fare quanto non si è riusciti a realizzare nel restante 98,52% della superficie isolana!
Gli uomini in uniforme (che in Sardegna sono circa 15 mila e che, considerato l'indotto familiare, rappresentano un potenziale serbatoio elettorale di almeno 50 mila unità) stanno attraversando una traumatica crisi di adeguamento e di contrazione vissuta nella consapevolezza di non essere, nonostante le formali profferte ufficiali di vuota solidarietà, nel cuore e nelle cure di nessuno. È necessario che qualcuno sia sensibile alle esigenze e alle aspirazioni di questi cittadini, destinatari abituali di inutili e fumosi protocolli, nonché di promesse dilatorie, patetici paraventi di un bilancio nazionale che i nostri
partners europei bollano come "inaccettabilmente inadeguato".
Per quanto concerne la "Sassari" servono prese di posizione ferme e decise.
Non va dimenticato che è facoltà del Comitato Misto Paritetico, composto anche da membri dell'amministrazione regionale, approvare o meno l'annuale programma addestrativo nei poligoni sardi. Quest'arma va, al pari di altre, usata fino in fondo.
Non sussistono difficoltà tecniche per realizzare questa proposta che non implica alcun maggior onere di spesa: serve solo la volontà politica di destinare alla Sardegna quanto attualmente è ingiustamente indirizzato altrove.
La mia esperienza professionale e l'aver comandato la brigata "Sassari" mi consente di garantire la fondatezza di questa affermazione.
Per concludere una notazione finale: completare la "Sassari" non è un investimento solo per la Sardegna ma anche per l'Esercito Italiano. E questa è una valutazione tecnica condivisa dallo stesso Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, il Generale Cervoni: se così non fosse il 24 dicembre scorso non avrebbe dichiarato agli organi di stampa che «
il soldato sardo è il migliore dell'Esercito Italiano».