La copertina del libro di Oswald Spengler
Uno sguardo sul mondo di oggi, sulle sue crisi - politiche, economiche, finanziarie, ideologiche - non può che farci riflettere sulle illusioni e sulla caducità dei miti che la nostra cultura edonistica alimenta di continuo. Nelle strade di Washington, racconta Alberto Pasolini Zanelli, corrispondente de "
Il Giornale", è apparso nuovamente lo slogan che molti avevano incollato sui paraurti nel 1973, durante la crisi petrolifera: "
Spengler era un ottimista".
Dopo 15 anni di assenza è ritornato nuovamente in libreria lo scorso agosto, "
Il tramonto dell'Occidente", di Oswald Spengler (Guanda, pagg.1584, prefaz. Di Stefano Zecchi), testimonianza di un mito letterario che non tramonta mai. Insieme al "
Capitale" di Marx è sicuramente tra i libri più citati e meno letti.
È difficile trovare, nell'Europa degli inizi del secolo scorso, un'opera filosofica la cui influenza culturale abbia avuto un così ampio riscontro, trasformando il suo autore da oscuro professore di provincia tedesco a "profeta di successo".
La sua immensa costruzione ideologica e mitologica analizza una grande messe di dati e li ordina in modo da costruire una struttura ciclica della storia, cui poi, tra gli altri, Mircea Eliade, nel suo "
Il mito dell'eterno ritorno" fa riferimento, in contrapposizione a una visione lineare della storia stessa.
In un mondo in cui prevaleva una filosofia di tipo analitico e l'esistenza sembrava ispirata, se non dominata, da una visione tecnico-scientifica del mondo, Spengler reintroduce, togliendo loro la polvere che li ricopriva, i concetti di simbolo e destino, riallacciandoli al movimento dell'esistere e del conoscere: quasi, ma non del tutto, una reazione allo spirito dell'illuminismo.
Nel corso di una conferenza tenuta a Monaco nel 1931, lo stesso Spengler diceva: «
Siamo nati in quest'epoca e dobbiamo percorrere fino in fondo la vita che ci è stata assegnata: non ne abbiamo altra. Resistere nella postazione perduta, senza speranza, senza salvezza, è dovere».
La sua opera, la cui prima edizione è del 1918, è intrisa della più cupa atmosfera della disfatta, affresco di una civiltà votata al tramonto, un paesaggio desolato intriso di nichilismo.
Il suo libro è un originale tentativo di elaborazione di una specie di morfologia della storia del mondo. Spengler sosteneva che tutte le civiltà attraversano un ciclo naturale di sviluppo, fioritura e decadenza. L'Europa si trovava nell'ultimo stadio, l'inverno di un mondo le cui stagioni più splendenti appartenevano ormai al passato. Alle leggi matematiche Spengler contrappone l'idea di un mondo come organismo vivente e la storia, in ultima analisi, non è altro che la vita di tale organismo. La storia e la natura coincidono, e le civiltà non sono altro che organismi viventi che quindi nascono, vivono e muoiono in una completa assenza di fini. È un colpo di maglio all'idea di progresso inarrestabile, che appare una tragica illusione.
La risposta che Spengler cerca di dare sul destino della civiltà europea è perentoria: tutte le civiltà che si sono succedute nella storia dell'umanità erano dotate ciascuna di una propria vita e di uno sviluppo "autonomo": organismi che hanno avuto una nascita, una decadenza e infine la morte. Come in tutti gli organismi biologici, questo ciclo di sviluppo ha il carattere dell'ineluttabilità, determinata comunque dal suo corredo di possibilità, una specie di DNA, di cui dispone alla sua nascita. E quindi la civiltà occidentale seguirà lo stesso destino di tutte le altre nel momento stesso in cui tutte le sue potenzialità si saranno realizzate. L'unica possibilità di sfuggire a questo ineludibile destino è quello di un radicale sovvertimento dei nostri pseudo-valori, un ribaltamento dell'intero sistema socio-politico e il ritorno a uno stato primitivo.
Questa visione pessimistica (o naturale?) nasce dall'analisi dei sintomi della decadenza dell'Occidente nel mondo a lui contemporaneo: il primato dell'economia sulla politica, la crisi dei principi religiosi e della libertà di pensiero.
Quasi un secolo dopo questi sintomi sono certamente più esasperati, con una finanza che prevale sull'economia e uno spirito religioso - che nei primordi della nostra storia era la linfa della crescita - ormai appiattito in un nefasto relativismo.
L'Occidente è infedele ai valori che lo hanno ispirato e non sa proporne di nuovi, sterile di figli e di idee.
Il "crepuscolo" wagneriano trascolora ormai nei cupi colori del tramonto, nell'illusione forse di una apocalittica palingenesi.