La copertina del libro di Giorgio Giorgerini
La curiosità intorno agli episodi di guerra non è mai cessata e non stupisce che la letteratura che se ne occupa incontri notevole successo tra i lettori.
È il caso del libro "
La guerra italiana sul mare" di Giorgio Giorgerini, uno dei più accreditati studiosi contemporanei di strategia navale. Ha insegnato Teoria del Potere marittimo all'Università statale di Milano e attualmente collabora con il Centro Militare di Studi Strategici ed è consulente dello Stato Maggiore della Marina.
Giorgerini non lesina critiche ai capi della Regia Marina e rende giustizia al valore di ufficiali e marinai, chiarendo alcuni aspetti della "guerra segreta" inglese. Lo studioso spiega inoltre le vere motivazioni strategiche dei vertici politici e militari italiani, i quali furono sostanzialmente sempre d'accordo nella politica di conservazione del "grosso" delle forze navali italiane. L'apertura degli archivi britannici negli Anni Ottanta ha rivelato l'esistenza del sistema "
Ultra" e molti episodi sono stati letti con una diversa prospettiva.
La guerra dei convogli, ad esempio, viene descritta non tanto sulle azioni a fuoco quanto con la ricerca pignola dei documenti ufficiali che fanno emergere un quadro disastroso di incompetenze, disattenzioni e persino ottusità da parte degli alti gradi militari.
Confesso che in tanti anni, dopo aver divorato centinaia di libri sulla guerra, non ho mai trovato occasione di leggere i documenti che invece Giorgerini recupera negli archivi militari e che riportano persino le comunicazioni tra comandi a terra e in mare durante lo svolgimento delle azioni stesse. Ripercorre la vicenda giudiziaria delle accuse rivolte da Trizzino, autore del famosissimo "
Navi e poltrone" all'ammiraglio Bruno Brivonesi circa la sua conduzione della scorta al convoglio "
Duisburg", dal nome del piroscafo germanico che occupava la testa della formazione che nel novembre 1941 portava rifornimenti alle truppe italo-germaniche in Nord Africa.
Il contrasto navale britannico, risoluto com'era nella sua tradizione, portò all'affondamento dell'intero convoglio (7 mercantili) e di due cacciatorpediniere (
Libeccio e Fulmine), mentre risultarono pesantemente danneggiati i caccia
Grecale, Euro e Maestrale.
Brivonesi, a capo della III Divisione incrociatori con funzioni di scorta distanziata, diede l'impressione, già durante lo scontro, di aver fatto accostare gli incrociatori pesanti a nord della formazione, lasciando che la Royal Navy facesse a pezzi i mercantili e i caccia della scorta ravvicinata. L'ammiraglio fu privato del comando in mare e trasferito senza altre conseguenze a un comando marittimo dell'Egeo, ma questo fu l'unico provvedimento adottato dalle corti marziali contro ufiiciali superiori durante il conflitto.
L'azione fu condotta dalla Forza K di stanza a Malta, costituita da due incrociatori leggeri e da due caccia, la cui scarsa consistenza era ben nota ai comandi navali: eppure aveva avuto ragione non solo dei caccia della scorta ma anche della III Divisione, una delle più forti formazioni italiane, composta dagli incrociatori pesanti
Trento e
Trieste e dalla XIII Squadriglia con i moderni caccia
Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino.
Lo studioso evidenzia anche il non determinante peso che ebbero la decrittazione dei messaggi italo-germanici e l'uso del radar. A Capo Matapan (marzo 1941) i messaggi furono intercettati e decifrati e il radar ebbe un suo ruolo, ma tutta l'operazione condotta dall'ammiraglio Angelo Iachino rivelò notevoli deficienze e il coordinamento con l'azione di supporto aereo fu disastroso. Lo scrittore critica la decisione di mettere in mare una forte aliquota della flotta italiana al solo scopo di intercettare i convogli mercantili diretti in Grecia, errore ripetutamente commesso più avanti dai comandi italiani e che gli Inglesi si guardarono bene dall'imitare, preferendo che gli attacchi ai convogli italiani venissero svolti dai mezzi insidiosi (sommergibili, aerosiluranti, motosiluranti).
A Matapan erano in mare la corazzata
Vittorio Veneto, la IX, XIII e la XVI Squadriglia caccia, la I, la III e l'VIII Divisione incrociatori, ma il vero successo dell'agguato notturno che colò a picco l'intera I Divisione e i caccia
Alfieri e
Carducci della IX Squadriglia, con 2.303 uomini, è da ascrivere alla continua ricognizione aerea inglese, che non perse mai il contatto con le navi italiane, mentre la ricognizione dell'Asse, sebbene inadeguata, aveva avvertito che il grosso navale inglese aveva preso il mare.
Iachino negò sempre di avere avuto informazioni al riguardo, giustificando così la sua decisione di spedire indietro gli incrociatori della I Divisone nel tentativo di soccorrere il
Pola, immobilizzato da bordate nemiche. L'ammiraglio Cattaneo, al comando degli incrociatori, tentò di far riconsiderare a Iachino il pericoloso ordine, che esponeva la Divisione all'attacco nemico, ma esso venne reiterato e gli Inglesi, nella "Notte di Matapan", fecero il tiro a segno indisturbati. Dai documenti ufficiali risulta invece che aerei Ju.88 tedeschi e ricognitori italiani avevano comunicato di aver scoperto la formazione nemica e addirittura il Servizio informazioni della Marina ne aveva dato conferma.
Diversi ufficiali della Marina italiana fin dagli Anni Venti erano stati tra i massimi teorizzatori della strategia navale della "
Fleet in being", ossia della politica di "deterrenza" che ogni Marina, anche in condizioni di non superiorità, poteva esercitare per il solo fatto di possedere una "flotta in potenza".
La politica di dissuasione, che comportava il "risparmio" delle navi, era condivisa anche dai vertici del regime fascista e questo spiega il mancato impiego "a massa" della flotta e le decisioni di abbandonare il contatto a fuoco col nemico che si ripeterono durante tutta la guerra tra il disappunto degli equipaggi. Il risultato fu che l'ancora potente flotta italiana venne consegnata, all'armistizio, agli Angloamericani con loro grande sollievo.
Al di là dell'andamento dei singoli scontri, citati quasi di sfuggita perché controversi e ben noti al grande pubblico, l'autore sposta la sua ricerca verso i freddi dati numerici, dimostrando che comunque la Regia Marina conseguì in pieno la sua vera missione, che fu quella di assicurare per ben trentanove mesi i rifornimenti alle truppe impegnate in Grecia e Africa.
L'elenco dei risultati è davvero sconcertante: il personale militare trasportato dall'Italia in Libia è del 91,6% (partiti 206.402, arrivati 189.162), il materiale giunto a destinazione ammonta all'85,9% (partite 2.245.380 tonnellate, arrivate 1.929.955). Anche i dati sui trasporti giunti con successo nelle ultime fasi della guerra in Tunisia, lungo la cosiddetta "Rotta della Morte", lasciano sbalorditi: i militari giunti in Tunisia furono il 93% del totale (partiti 77.741, arrivati 72.246) mentre il materiale bellico raggiunse il 71% del totale (partite 433.160 tonnellate, arrivate 306.532).
La scorta a questo imponente traffico, nelle ultime fasi, venne assicurata dalle nuove unità leggere (caccia e torpediniere) e dal miglioramento delle azioni combinate marina-aeronautica, che finalmente riuscirono a mettere da parte le antiche rivalità.
Si potrebbe concludere che il miglioramento delle azioni di comando delle forze armate italiane e del loro impiego tattico giunsero quando la guerra volgeva al peggio, mentre agli Inglesi non parve vero di utilizzare in Atlantico nel 1944 le magnifiche navi italiane che la politica della "
Fleet in being" aveva risparmiato.