Sì all'articolo 18 - La classe operaia va in paradiso
Punto su punto, ecco perché invece Berlusconi deve assolutamente portare avanti le riforme del mondo del lavoro
di Angelo Abis
È un peccato che Stefania si sia fermata, nel rievocare i fasti e "nefasti" della classe operaia, ai primi anni settanta. Se fosse andata oltre avrebbe scoperto qualcosa di più interessante e di più attinente ai tempi nostri, come, per esempio, che qualche milione di lavoratori ex protagonisti dei vari autunni caldi si trovò, a cavallo degli anni ottanta, a causa di quel processo di crisi e di ristrutturazione che investì in quegli anni la grande industria, prepensionato, in cassa integrazione o licenziato. Lavoratori ancora relativamente giovani, professionalmente preparati, non disposti a starsene a casa senza far niente. Così, quasi in contemporanea, si riciclarono utilizzando sottoscala, cantine, bugigattoli e capannoni vari, acquistando qualche apparecchiatura da quattro soldi, iniziarono a produrre in proprio e a vendere a tutto il mondo l'ira di Dio. Si andava dalle stanghette di occhiali alle camicette, dai bulloni alle viti, dagli zoccoli a quelle particolari guarnizioni richiestissime dall'industria elettromeccanica tedesca.
Fu così che, nel giro di pochi anni, nella valle del Po e a macchia di leopardo anche nel resto d'Italia, sorse quel formidabile tessuto di piccola e piccolissima impresa che fece sì che l'Italia, per la prima volta nella storia, esporti merci in misura superiore a quelle che importa.
Quei milioni di ex operai, magari comunisti, promossi al rango degli ex odiati padroni, si ritrovarono a sperimentare sulla propria pelle l'arretratezza, l'esosità, il parassitismo dello stato "cattocomunista" e a combattere i privilegi accordati da questo a ceti e istituzioni quali sindacati, grandi industrie, magistratura, ecc.. Ma poiché questa è gente magari un po' rozza e impolitica, ma che ha fegato e "palle", si è anche buttata in politica, scegliendo uno come loro che si è fatto da niente, che non si vergogna della propria ricchezza e che pensa che, operando in grande come operarono loro in piccolo, sia possibile fare dell'Italia una nazione moderna e civile, prima e non fanalino di coda in Europa.
Altro che «officine di Mirafiori che si sono fatte conquistare da Berlusconi e il suo paese dei balocchi»! Sono gli ex operai e i nuovi produttori (le 5 o 6 milioni di partite iva) che hanno imposto al paese Berlusconi a dispetto dei magistrati, del conflitto d'interessi, delle accuse più o meno infamanti e anche a dispetto di una certa destra, per fortuna assai minoritaria, che, crogiolandosi beatamente nelle proprie fumisterie ideologiche, avulsa dai reali problemi della società, confonde lo Stato sociale con la difesa dei privilegi, un progetto rivoluzionario di modernizzazione con la deriva tatcheriana e neoliberista.
La riforma dell'articolo 18 (che, secondo Stefania, è l'ariete del duo liberista Berlusconi-Maroni per iniziare la distruzione del cosiddetto "Stato sociale") attenta i diritti dei lavoratori in nero, che ottengono un contratto di lavoro alla luce del sole, i lavoratori a tempo determinato, che ottengono un contratto a tempo indeterminato, e quelli che vengono assunti in aziende che hanno meno di 15 dipendenti. Il tutto, per giunta, in via sperimentale e per un arco di tempo limitato. Come si vede non tocca i lavoratori che sono attualmente sotto la tutela dell'articolo 18. Non porta alcun vantaggio alla media e grande impresa, ma solo alle piccole imprese, ai disoccupati e ai sottoccupati, nonché ai lavoratori in nero, cioè a quelli veramente sfruttati.
Evidentemente Stefania ha un concetto alquanto confuso dello Stato sociale «edificato in anni molto sospetti» (1923) dal duo (quello sì liberista... altro che Berlusconi-Maroni!) Mussolini-De Stefani, con il licenziamento in tronco di 46.000 ferrovieri, 8.500 post-telegrafonici e 9.000 dipendenti di vari ministeri. Eppure nello stesso anno si ebbe una diminuzione della disoccupazione del 30%. A dimostrazione che lo Stato sociale non sempre si concilia con il posto di lavoro garantito a vita.
Stefania afferma infine che la riforma dell'articolo 18 comporti anche il rischio della «rimozione delle nostre origini»: al mito soreliano dello sciopero generale come leva per abbattere lo stato borghese non ci crede più neanche Cofferati. Quanto al «socialista rivoluzionario di Romagna», abiurò sé stesso, a partire dal 1914, quando chiamò "organo dei produttori" il "Popolo d'Italia".
Stefania rimpiange il Pareto, assertore che il declino della civiltà greca e romana traeva origine nell'estinzione di un robusto ceto capitalista privato di un sufficiente accumulo di capitali? Anch'io... Quanto ad Alfredo Rocco, non ha mai pensato a una società senza conflitti, ma bensì che questi conflitti li dovesse risolvere lo Stato, il che non è la stessa cosa.
Per concludere, ritengo che questa volta Stefania ci abbia un po' "strimpellato" lei con una - un po' squallida - romanza "anti-Berlusconi" e "anti-Fini", e fin qui niente di male: ognuno è libero di pensare e scrivere come meglio gli pare. Il problema è che musica e parole non sono sue, bensì quelle del più becero "antiberlusconismo ulivista": Stefania potrebbe suonarle e cantarle nei vari "girotondi" e nelle future adunate soreliane del 16 aprile: avrebbe un successo strepitoso. Già... e gli osanna al Duce e gli anni sospetti?
Non preoccuparti, Stefania... Rauti, fintantoché ha detto di Berlusconi e di Fini ciò che hai detto tu, è stato ospite gradito nei congressi dei D.S. e soci, figuriamoci se non lo saresti tu...