No all'articolo 18 - La classe operaia non va in paradiso
In attesa che Fini esprima chiaramente una posizione a tutela dei lavoratori, rispolveriamo finalmente la partecipazione
di Stefania Burini
Chi di voi non ricorda il celebre film interpretato da Volonté, quell'affresco così grottesco e per qualche verso graffiante dell'Italia del boom economico, della "seicento per tutti", della crescita incontrollata delle periferie industriali, del meglio o forse del peggio di una industrializzazione neonata e al contempo genitrice di grosse inciviltà?
E forse molti di voi ricorderanno "l'autunno caldo", il 1969, il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, le "fermate" di settembre in quelle officine di Mirafiori che si sono fatte conquistare da Berlusconi e il suo paese dei balocchi. E ancora gli scioperi a catena, i processi ai "feudatari" dell'automobile, lo scontro sociale, l'odio di classe che agitava il neonato proletariato industriale di una società che, sì, cresceva in benessere, ma al contempo in disuguaglianza.
In questi giorni in cui si accavallano i dibattiti sull'articolo 18, mi sono tornati in mente gli anni settanta, gli scioperi, lo scontro sociale che fu il preludio della nascita di molti movimenti armati legati all'eversione di sinistra: Potere Operaio, Autonomia Operaia. E in fondo io, come altri Italiani, nutro il dubbio che sia questo il clima sociale che di qui a poco le proposte del tandem neo-liberista Berlusconi-Maroni riproporranno.
Intanto comincio col dire che l'articolo 18, lo Statuto dei lavoratori, non è un totem inviolabile, e l'opposizione alla sua modifica non è nemmeno una battaglia di civiltà come vorrebbero far credere certi leader sindacali in malafede, mossi da faziosismi antigovernativi e da smanie da leadership (Cofferati docet). Certo però che, quando si parla di tutela dei lavoratori, di "Stato sociale", una consistente parte dell'elettorato e della stessa base di Alleanza Nazionale si aspetterebbe dalla persona di Fini una posizione non di aprioristica pregiudiziale "antiliberista", ma perlomeno il dubbio sulla necessità e legittimità di certe iniziative. La modifica dell'articolo 18, nel "silenzio-assenso" della destra "ex sociale", rischia purtroppo di essere il principio di una serie di provvedimenti finalizzati a sfaldare le fondamenta di quello Stato sociale edificato in anni "molto sospetti" e mantenuto e migliorato attraverso aspri confronti sociali.
E tutto questo perché? Semplice: le imprese del nord e la stessa Confindustria chiedono il conto per il consenso accordato al centrodestra. Dietro tutto ciò si intravede la regìa, non tanto occulta, di Amato, mai così filogovernativo quanto in questa legislatura. Il pericoloso connubio "grande industria e piccola e media impresa", egregiamente rappresentate da Lega e F.I., comincia purtroppo a dare i suoi frutti avvelenati. E se la posizione dell'asse neoliberista è esecrabile ma facilmente intuibile, il peggio è rappresentato da A.N., che ha abdicato con superficialità dalla propria funzione di mediatrice di conflitti di interesse tra nord e sud e tra ricchi e poveri.
Il furbesco alibi a giustificazione di tali modifiche è sempre lo stesso: maggiori strumenti di flessibilità per far crescere l'occupazione; proprio questo chiede Amato, molto sensibile, come tutti sappiamo, alle istanze del mondo del lavoro. Ma chi ci assicura che l'aumento di quello che in gergo tecnico si chiama "turn over" crei nuova occupazione? L'ha forse portata in Francia o in Germania, dove non esiste il licenziamento per giusta causa? O è forse un modo di indurre una precarizzazione del mondo del lavoro, già iniziata dal governo D'Alema con i contratti atipici, l'introduzione delle società interinali, del lavoro a tempo? Forse, invece, è ancora più dannoso per l'economia.
E se certi accenti "tatcheriani" non mi stupiscono in personaggi come Bobo Maroni (espressione politica della poco nazionalpopolare piccola e media impresa lumbard) o Berlusconi, che, a prescindere dal fatto che è un imprenditore prestato alla politica (il che si commenta da solo), non ha mai nascosto la propria fede liberista (altro che "presidente operaio"!), mi lasciano interdetta se trovano il servile plauso della nostra "foca" Fini, a cui bastano poche zollette di zucchero di tipo "convenzione europea" per genuflettersi al postulato neoliberista senza abbozzare la pur minima contestazione.
La cosa triste e forse anche un po' pericolosa è che, mentre il rapido liberista Berlusconi-Bossi marcia senza ostacoli, il diretto che dovrebbe rappresentare il contrappeso sociale cristiano-alleanzista è in via di deragliamento per poco onorevoli interessi di bottega, il che di qui a poco genererà un clima di conflitto sociale tutto a favore della sinistra. E mi chiedo se sia questa la risposta che anche A.N. intende dare ai tanti giovani del sud che con entusiasmo hanno aderito al suo programma e non a quello di Forza Italia. La replica alle richieste di lavoro è, forse anche per A.N., questa: «siate più flessibili, più mobili»... Caro Fini, l'unico elemento di flessibilità che manca ai giovani del sud è l'anello al naso! Quanto poi alla nostra disgraziata isola, qui le modifiche all'articolo 18 non verranno mai applicate perché in Sardegna i lavoratori sono una razza in via di estinzione come i mufloni!
Questa scellerata iniziativa, purtroppo, fa cadere il velo sulla favola del paese dei balocchi con cui pinocchio-Silvio ha coscientemente illuso tanti Italiani convinti che si potesse creare ricchezza senza che nessuna parte sociale pagasse il dazio di questa crescita. L'appiattimento totale del nostro Presidente sulle scelte di politica economica targate Silvio ci fa apparire agli occhi degli Italiani come figli, nostro malgrado, della mano invisibile di Adam Smith. Proprio adesso che la grande patria dell'economia classica, l'America, si converte, in un improvviso slancio "keynesiano", all'intervento dello Stato in economia (scelta dettata anche dalla sfavorevole congiuntura economica post-due torri)!
L'articolo 18 rischia di essere un altro piccolo passo verso la rimozione delle nostre origini e verso l'abdicazione alla vocazione sociale che ha reso la nostra destra uno strano fenomeno tutto italiano; ed è forse il preludio all'abbandono della nostra specificità all'interno del governo Berlusconi. Addio a George Sorel, al non più statista socialista rivoluzionario di Romagna, a Pareto, alla società senza conflitto di Alfredo Rocco e del suo progetto corporativo.
Anche il nostro partito si genufletterà senza reagire al postulato intoccabile del neoliberismo? Di fronte a questa nuova rivoluzione copernicana della destra sociale resta da chiedersi se questo partito crede ancora nella possibilità di proporre una nuova lettura della dinamica di classe e del conflitto tra lavoratori e imprenditori. E se ci crede nonostante la posizione di alcuni suoi leader, chiediamoci se saremo capaci di trasformare l'idea rivoluzionaria del corporativismo in una seria proposta partecipativa: è questa la grande scommessa della nostra destra, prima di finire con l'essere una destra qualsiasi...