Sopra: Feronia, dea della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi
A sinistra: moneta romana dedicata alla Dea Feronia
Nel cuore del Lazio, i Monti della Sabina si stagliano a est maestosi e solenni. A nord-ovest, l'antico Soratte, sede della confraternita degli Hirpi Sorani, sorge improvvisamente con la sua rupe a picco, dal morbido avvicendarsi dei dolci pendii dell'ondulato paesaggio laziale. Il vento spazza questa terra quasi sgombra di alberi, muovendo in lontananza la bassa vegetazione selvatica sulle creste delle basse colline.
È in questo paesaggio denso di arcaicità che da prima del tempo, da quando il Padre Giano regnava su queste terre, si cela la diva Feronia, dal capo coperto dal diadema e dai floridi seni. Costei vigila sull'avvicendarsi dei cicli naturali, sulla maturazione delle messi e sulla salute degli armenti. Dea dei campi, dei luoghi selvaggi e degli animali, ha in tutela il pargoletto Iuppiter Anxurus, che sta sulle ginocchia della prosperosa nutrice. Compagno della Dea, il pargoletto si manifesta come Soranus sul vicino Soratte, sul quale i coraggiosi iniziati sfidano l'orso speleo.
Quando gli allevatori di bestiame provenienti dal vicino paese dei Falisci, gli avventurieri provenienti dai sette colli sui quali sarebbe sorta l'Urbe, i rudi pastori della Sabina e i ricchi ed eleganti mercanti etruschi dalle vesti variopinte convenivano per il mercato sorto sotto la tutela della Dea, già le loro mogli invocavano il nome di Feronia perché proteggesse la salute dei loro bimbi, perché il roseo colore delle loro guance non impallidisse e crescessero sani e forti, sicuro pegno della continuità della Stirpe e futura difesa della Patria contro il nemico. Ori e primizie della terra recavano i fedeli al suo altare, affinché la Dea esaudisse i loro voti.
Poi secoli e secoli, in armonia con la Natura e con gli Dei, durante i quali scorse la vita delle genti italiche ancora non corrotte dalla seduzione del lusso e del denaro, ancora fedeli agli Dei patrii e immuni dalla deprecabile superstizione orientale. Conduceva ancora il Paterfamilias l'aratro antico e il gregge, protetto dalla legge dell'Urbe fondata da Romolo figlio di Marte. Feronia, intermediaria tra gli uomini e la Natura, intercedeva a favore dei progenitori nostri presso le forze silvane.
Poi, improvvisamente, questa pace fu interrotta dallo strepito delle soldataglie dell'empio e barbaro invasore semitico, il Punico falso e crudele giunto a violare l'antico tempio, a profanare la pietra già vetusta di secoli dell'altare della Dea con il sangue innocente dei suoi sacerdoti e dei suoi fedeli.
Lunghi anni di sacrifici e di lotte costò alle genti italiche, radunate sotto la guida di Roma, la liberazione e alfine la vittoria sul sanguinario cartaginese e sui fratelli italici che con lusinghe o minacce si erano convinti a seguirlo. Ma ormai sul
Lucus Feroniae si stendeva un lugubre silenzio, i rovi circondavano ormai l'altare e il vento sollevava nugoli di polvere là dove una volta il mercato risuonava di voci e di grida. Nessuno più invocava il nome della Dea sull'altare di pietra porosa: il vincolo sacrale mantenuto per secoli era reciso per sempre?
Dopo secoli di oblio, secoli di disordine e guerre fratricide, secoli in cui legioni dei figli d'Italia resero il nome di Roma rispettato e temuto nel mondo, ma che videro anche decadere il
Mos Maiorum, ancora una volta la minaccia dell'Oriente: Antonio e Cleopatra si preparavano ad attaccare l'Italia, il cuore dell'Impero. Ma inviato dagli Dei, sorse a difesa della Patria un biondo giovinetto, rampollo della
Gens Julia, pura incarnazione dello spirito virile, olimpico e solare di fronte alla turpe seduzione della vanitas levantina: Ottaviano.
Alfine vittorioso, il giovinetto diventato Augusto restaurò il Principato, si adoperò affinché la religione dei padri e l'antico costume delle genti italiche fossero rimessi in auge. Il pio Imperatore non dimenticò la Dea silvana e il suo Santuario capenate. Si fecero esecutori della volontà del Principe i potenti Volusii, signori di queste terre.
E da secolare squallore fu riportato alla venerazione dei fedeli l'altare di Feronia, intorno al quale sorsero splendidi edifici:
l'Aerarium, l'Anfiteatro, il tempio entro il quale si officiava il culto dell'Inviato del Cielo, il Divo Augusto, che aveva restituito la Stirpe ai suoi Dei e gli Dei alla Stirpe.
Stavolta la pace del Santuario non fu turbata per secoli. Feronia continuò a proteggere quanti si recavano presso il suo
Lucus a renderle omaggio e fu particolarmente benevola verso il suo devoto Traiano, che per averne restaurato il Santuario vi fu ricordato quale
Restitutor coloniae.
Ma una cupa minaccia si addensava all'orizzonte del mondo romano-italico: quello stesso Oriente che, vinto due volte sul campo di battaglia, era stato sempre respinto, tornava alla carica sotto nuove spoglie, conquistava i cuori delle persone, a cominciare da quelle più umili per finire con imperatori certamente non degni della loro carica di
Pontifex Maximus. Quel mondo di Luce, Giustizia e armonia tra Uomo e Natura si stava avviando al tramonto. La tenebra dell'intolleranza e del fanatismo avvolse il Santuario che per la seconda volta fu profanato, cadendo per la seconda volta nell'oblio. Ma stavolta nessun giovinetto biondo giunse a restaurare l'antico culto e l'Ordine dei Padri. Noi l'aspettiamo ancora...
Ma al viandante che con cuore puro si avvicina all'altare della diva Feronia, la Sua presenza eterna sembra solo occultata dalla fitta caligine dell'illusione del nostro mondo empio e sconsacrato. Feronia, intermediaria tra noi e la Natura feconda di doni, è presente nel silenzio dei luoghi silvani con il suo sorriso enigmatico.
Essa appartiene a quel mondo di Verità e Giustizia che, se sapessimo riscuoterci dallo stordimento mentale della vita di tutti i giorni, rifulgerebbe dinanzi a noi.
Vedi anche "Sol Indiges" n. 1/2001, pagg. 43-44 e "La Cittadella" n. 37, gennaio-marzo 2010, pagg. 19-21