EXCALIBUR 73 - aprile 2013
in questo numero

In arrivo il nuovo libro di Angelo Abis

Un altro tassello nella storia dimenticata della nostra Sardegna

della Redazione
Il frontespizio del nuovo libro di Angelo Abis
PREMESSA.
Gli anni 1943-1946 sono considerati per la Sardegna se non proprio felici, quantomeno quasi tranquilli, stante le tragedie e gli orrori che nello stesso periodo colpirono quasi tutte le regioni italiane. Cessate le apprensioni per il temuto sbarco alleato nell'Isola, la caduta di Mussolini fu accolta dalla popolazione con una certa apatia, senza particolari entusiasmi. Il fatto poi che i Tedeschi si siano ritirati in Corsica in buon ordine, dando luogo solo a qualche scaramuccia, diede l'impressione che la Sardegna uscisse dal secondo conflitto mondiale già dalla fine settembre 1943. Per un fortunoso scherzo del destino, l'Isola fu l'unica regione d'Italia a non essere "liberata", o, se si preferisce, occupata dagli eserciti alleati. Anzi il primo "atterraggio" degli Alleati sul suolo sardo incappò in un ostacolo alquanto "rude". La mattina del 22 settembre del 1943, alcune decine di aerei si apprestavano ad atterrare nell'aeroporto di Decimomannu.
L'accoglienza non fu certo amichevole, perché il benvenuto fu dato con un intenso fuoco di sbarramento che colpì anche un velivolo americano.
Si era certamente trattato di un equivoco. Infatti il colonnello comandante del campo si scusò con i funzionari inglesi e americani appena arrivati. E, pur tuttavia, l'episodio era la spia di una situazione peculiare solo alla Sardegna. Gli avvenimenti successivi all'8 settembre non avevano, se non marginalmente, intaccato la disciplina e la coesione delle nostre forze armate, milizia fascista compresa, né ne avevano diminuito il potenziale bellico. Non si era verificato nell'Isola il triste e squallido spettacolo del "tutti a casa", del saccheggio delle caserme e dei depositi militari, di qualche pattuglia tedesca che "catturava" un intero reggimento di soldati italiani. La "morte della patria" non ci toccava, e non riguardava solo le forze armate, ma anche la popolazione civile. I Sardi non si sentirono "liberati" da chicchessia e dimostrarono verso gli Alleati dignità e assenza, in linea di massima, di ogni forma di servilismo: niente ali di folla acclamanti a raccogliere caramelle, niente "sciuscià" e altre forme di degrado fisico e morale. Anzi, quando, per fortuna raramente, la presenza alleata si manifestò in maniera arrogante e prevaricatrice, trovò unanime resistenza e riprovazione anche da parte delle autorità pubbliche e degli antifascisti. Eguale resistenza e opposizione trovarono i tentativi di inviare i militari sardi a combattere contro i Tedeschi: non si capivano le ragioni per cui dovessimo sparare contro il nostro ex alleato, che pure si era comportato più che correttamente nei confronti della popolazione.
Che un tale anomalo svolgersi degli avvenimenti avesse anche delle importanti e specifiche ricadute nel contesto politico della regione è fuor di dubbio. Al di là di tutte le valutazioni che si possono fare sul fascismo, sul suo carattere autoritario e illiberale, sul suo essersi affermato con la violenza, sull'aver eliminato qualunque forma di opposizione, non c'è dubbio che quel fascismo, in Sardegna, ebbe poco spazio, e quel poco lo perse, allorché Mussolini, una volta saldamente al potere, volendo e dovendo creare una nuova classe dirigente locale, non si servì certo degli uomini del primo fascismo, né, tantomeno, delle vecchie clientele liberali, bensì puntò tutto, o quasi tutto, sul gruppo dirigente sardista, se non altro perché era composto da giovani ex combattenti che si erano fatti un largo seguito popolare e che, del resto, erano su posizioni antisocialiste e antiliberali.
Non è questa la sede per valutare la bontà o meno della decisione sardista di inserirsi nel progetto mussoliniano. Sta di fatto, però, che il regime, al tramonto, lasciò in Sardegna, per la prima volta nella storia, una classe dirigente autoctona vasta e articolata, che si era formata nella gestione delle pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni sindacali, del Pnf e di tutte le organizzazioni collaterali. Certo nominata dall'alto, in base al criterio dell'assoluta obbedienza al partito, ma che una qualche capacità e un po' di spirito di dedizione doveva pur avere, stante la mobilitazione permanente e la ricerca del consenso che il regime richiedeva ai suoi apparati. Cresciuta nel brodo di coltura del sardo-fascismo, che fu cosa ben diversa, pur con tutte le sue contraddizioni, dal fascismo "continentale", si sentiva molto più legata alla concretezza dei problemi reali, economici e sociali della propria terra, che non alle pur altisonanti questioni politiche e ideologiche. Questa classe dirigente passò pressoché indenne dal fascismo alla democrazia. È pur vero, che una parte di questa subì arresti ed epurazioni, soprattutto quella troppo compromessa col fascismo, che non se la sentiva di abiurare alle proprie idee e al proprio vissuto personale. Ma anche questa, passata la bufera del primo dopoguerra, nella sua quasi totalità, fu reinserita nel tessuto amministrativo e politico non solo della Regione, ma della stessa Nazione. A partire dall'8 settembre, per subire poi una accelerazione dopo il 25 aprile del 1945, si aprì in Sardegna una nuova stagione politica effervescente e dinamica, ricca di tensione morale, fatta di aspri scontri e di dure polemiche, ma solo marginalmente coinvolta nel clima della guerra civile, delle vendette, dei rancori e delle rivalse operanti in altre regioni. Questo, una certa storiografia e memorialistica di stampo giacobino, non lo ha proprio digerito. Per essa, il mancato attacco alle truppe tedesche, la non eliminazione radicale dei fascisti, l'atteggiamento moderato dei vecchi gruppi antifascisti, definiti, un po' sprezzantemente, "borghesi" furono la causa della debole tensione morale che non permise all'Isola di mettersi al passo con le più evolute regioni del Norditalia, che temprate invece dal clima della guerra civile, dal sangue delle stragi e delle rappresaglie intrise di faziosità, odio e rancore, si avviarono verso un radioso futuro.
Da qui una lettura per lo più ideologica e pedagogica del periodo 1943-46, tesa non tanto a descrivere e a spiegare fatti, uomini o idee, quanto a convincere che se tali fatti, uomini e idee, avessero imboccato una via diversa da quella realmente percorsa, allora sì che i Sardi sarebbero usciti dalla loro arretratezza e si sarebbero avviati verso le magnifiche sorti progressive! Questo studio ha per oggetto il non molto conosciuto fascismo clandestino con la relativa epurazione che lo accompagnò. Non fu certo un movimento di massa, ma pure abbastanza diffuso. Non presentò caratteristiche di tipo terroristico, né si estraniò dalla lotta politica e sociale che chiamava in causa il governo del Regno del Sud e il governo militare alleato, trovando anche, se non alleati, almeno "vicini" e difensori insospettabili. Non fu puramente nostalgico, ma, anche se in maniera confusa e contraddittoria, proiettato nel futuro. In ogni caso, così importante che la parte più avveduta dell'antifascismo non solo mise da parte chi voleva il suo sradicamento dalla società italiana, ma, in qualche modo, ne sollecitò la partecipazione alla nascente repubblica democratica. Il tutto si concretizzò poi, non senza contrasti e opposizioni, con la promulgazione del decreto sull'amnistia il 22 giugno del 1946, appena venti giorni dopo il referendum sulla Repubblica. E con il successivo riconoscimento del Movimento Sociale Italiano, avvenuto nel dicembre dello stesso anno. Quello fu il momento più "alto" dell'antifascismo!
Eppure, a tutt'oggi, di tali vicende quasi ci si vergogna ed è bello non parlarne! Ma questo rientra nei misteri e nelle contraddizioni della storia d'Italia.
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