EXCALIBUR 58 - febbraio 2010
in questo numero

Serpentara: un bene identitario dimenticato

Luoghi della Sardegna che si perdono nell'indifferenza

di Emilio Belli
Sopra: la Torre di San Luigi vista dalla Cala di Levante
Sotto: veduta aerea dell'Isola di Serpentara
La decisione del Tribunale fallimentare di Cagliari di mettere all'asta l'Isola di Serpentara e la sua ridicola annessione alla "Repubblica di Maluentu", proclamata con molta enfasi da Doddore Meloni, hanno portato alla ribalta la particolare situazione di questo lembo di terra sarda che occorre salvaguardare, in quanto, oltre ad avere una specifica valenza paesaggistica, risulta un luogo emblematico e fortemente identitario data l'utilizzazione che ne è stata fatta in antico.
Posta a occidente di Villasimius, all'altezza di Punta Porceddus, da cui la separa un braccio di mare di alcuni chilometri, l'isola si presenta come un massiccio tabulato granitico di forma allungata, ma, ad eccezione delle lucertole, non vi sono presenti altri rettili, ed è più verosimile siano stati i naviganti ad averle dato il nome di Serpentara, forse suggerito dalle impervie cale che ne incidono le coste conferendole una forma sinuosa. Si tratta di un contesto ambientale di grande suggestione, caratterizzato da una rigogliosa macchia mediterranea, dove l'aspetto faunistico è rappresentato dalla lepre, purtroppo anche dal ratto, e da diverse varietà di uccelli, tra cui il falco pellegrino, la berta, il cormorano dal ciuffo e il gabbiano reale, che vi nidificano.
Venendo al piano storico, vale la pena di rammentare come la più antica attestazione dell'isola si debba al "Compasso de Navigare", famoso portolano in lingua italiana della metà del XIII secolo, mentre una sua dettagliata descrizione compare nella relazione sulle coste della Sardegna redatta nel 1720 dall'ing. Antonio Felice De Vincenti per incarico del Vicerè di San Remy.
Pur costituendo da epoca remota un fondamentale punto di riferimento per la navigazione, questa isoletta, avente un'estensione di appena 130 ettari, rimase disabitata fino al primo decennio del Seicento, periodo in cui, sul punto più elevato della parte di Settentrione, gli Spagnoli edificarono la Torre di San Luigi, la quale è una testimonianza tangibile di quanto fossero pericolosi i Barbareschi, che con le loro frequenti scorrerie non solo danneggiavano il traffico mercantile, ma mettevano a repentaglio anche i beni e la stessa sopravvivenza delle comunità rivierasche.
Attualmente si tende a minimizzare la portata di questo devastante fenomeno che nel Mediterraneo Occidentale si è protratto fino al secondo decennio dell'Ottocento, e ha avuto pesanti effetti anche sulla Sardegna: l'attacco più clamoroso, che portò alla cattura di 800 Carlofortini (riscattati a grave prezzo dopo cinque anni di schiavitù), si verificò infatti nel 1798, seguito nel 1815 da quello sferrato alla cittadina di Sant'Antioco, vanamente difesa dagli eroici artiglieri del "Forte de su Pisu", e posta a sacco dai pirati tunisini.
Sorta con lo scopo di fronteggiare questa minaccia, la "Torre fortelesa de la Isla de Serpentayre" faceva parte del dispositivo preposto all'interdizione delle insenature e dei punti di rifornimento d'acqua esistenti nel tratto di costa fra Capo Ferrato e Torre delle Stelle, che comprendeva altre tre opere da difesa (Cala Pira, Isola dei Cavoli, Fortezza Vecchia) e cinque di avvistamento (Monte Ferru, Porto Giunco, Cala Caterina, Capo Boi, Monte Fenugu), le quali, fatta eccezione per quella dell'Isola dei Cavoli, furono realizzate dopo il 1595.
Della Torre di San Luigi, che costituisce un importante tassello della storia della Sardegna sud-orientale, è possibile delineare le vicende con sufficiente ampiezza. La sua costruzione, deliberata al tempo del Vicerè Antonio Colonna, fu avviata, come la Torre di Cala Pira, nel 1601, ma a differenza di questa venne portata a termine nel 1607 durante il mandato di Pietro Sanchez di Calatayud, Vicerè di Sardegna sotto Filippo III di Spagna. Va aggiunto che né il primo progetto di torreggiamento dei litorali sardi, approntato nel 1572 da Marcantonio Camos, e neppure quello proposto cinque anni dopo da Miguel de Moncada ne contemplavano l'impianto, che fu quindi imposto dall'esigenza di rafforzare la difesa del settore.
La nostra torre si differenzia dalla maggioranza dei fortilizi costieri di media grandezza soltanto nella forma, essendo un manufatto cilindrico alto una dozzina di metri impostato su un robusto basamento tronco-conico, mentre per il resto le soluzioni costruttive adottate erano quelle consuete. Si articolava su due livelli, presentando al piano inferiore una camera, ovviamente a pianta circolare, che ospitava due postazioni per l'artiglieria, la polveriera principale, diversi vani per alloggiare la guarnigione, la cucina e un caminetto. La cisterna era invece incorporata nella base.
La copertura, del tipo a cupola, era supportata da robusti arconi, oggi in parte crollati, e da un pilastro centrale. Per accedere al piano superiore si utilizzava una scala in pietra ricavata nel muro perimetrale, sufficientemente larga da consentire il passaggio di un torriere con un barilotto di polvere portato a spalla. Nella parte sommitale della torre vi era una terrazza, detta convenzionalmente "piazza d'armi", destinata alla difesa e al servizio di vigilanza, e per questo protetta da un alto parapetto, munito di cannoniere, di fuciliere e corredato di due garitte di guardia. In genere questo spazio accoglieva anche delle strutture di servizio, tra cui una polveriera sussidiaria e la latrina.
Intorno alla metà del Settecento, l'artiglieria in dotazione si limitava a 4 pezzi, costituiti da due cannoni da 7 e 9 libbre collocati nel corpo-torre, mentre sulla terrazza erano sistemati un pezzo di piccolo calibro e una spingarda a cavalletto: questa, pur sparando modesti proiettili di piombo da due once di peso, dava buoni risultati quando si riusciva a prendere d'infilata le linee di voga delle agili galere barbaresche. Nel 1767 l'armamento principale, pur invariato nel numero, annoverava due pezzi da 12 libbre, e di spingarde ne esistevano ben cinque, segno evidente che nell'arco di un decennio gli attacchi dei Barbareschi si erano intensificati. Quanto al presidio, non era molto numeroso, contando, oltre all'alcaide che lo comandava, un artigliere e quattro soldati, ai quali si aggiungevano due marinai, che con una piccola imbarcazione assicuravano i collegamenti con la terraferma. L'armamento individuale consisteva in fucili di tipo militare e corte picche, dette "spontoni a manico"; per la difesa piombante si impiegavano "bocce di fuoco" e pietre.
Diversi fattori inducono ad attribuire alla Torre di San Luigi un ruolo di fondamentale importanza: in primo luogo per l'armamento, avendo i pezzi di maggior calibro una gittata di almeno 3 km. che consentiva di incrociare il tiro con i cannoni postati a Cala Pira e nell'Isola dei Cavoli; vi è poi da tener conto che la Torre di Serpentara costituiva il punto chiave del dispositivo di difesa, essendo in grado, per la sua posizione avanzata, di avvistare tempestivamente le navi ostili segnalandone la presenza, con fumate e fuochi, alle postazioni di Monte Ferru, Cala Pira, Fortezza Vecchia e Isola dei Cavoli, e da quest'ultima, con lo stesso metodo, venivano allertate le Torri di Cala Caterina e Capo Boi. Un terzo elemento di valutazione è dato dall'onere che la Reale Amministrazione delle Torri sosteneva per le paghe del personale e le spese per la barca, giacché l'importo desunto dal bilancio del 1795 è di 885 lire sarde, di poco inferiore a quello della Torre di Calamosca, che fra tutte le fortificazioni costiere era quella gravata dai maggiori costi.
La torre di Serpentara era quindi un serio ostacolo alle scorrerie dei pirati barbareschi, dai quali fu ripetutamente assaltata ed espugnata per tre volte, negli anni 1733, 1762 e 1812. L'attacco più pesante fu il secondo, avvenuto il 16 luglio. In quella circostanza l'alcaide Juan Carlos Massey fu ucciso da una fucilata, e il figlio Francesco, casualmente presente nell'isola, portato in schiavitù a Tunisi con il resto della guarnigione. La torre venne data alle fiamme.
Nell'Archivio di Stato di Cagliari si conserva il rapporto stilato il 26 agosto 1762 dal Luogotenente d'Artiglieria Pietro Belly, concernente l'esito del sopralluogo effettuato nell'isola dopo l'incursione. Il documento si rivela di particolare interesse poiché pone in evidenza quali fossero i limiti della difesa, rammentando peraltro come, a causa del suo isolamento, la torre non poteva essere soccorsa, e che quando si verificò l'attacco erano in corso i lavori per la sopraelevazione del parapetto e la costruzione di nuove cannoniere.
Secondo il parere dell'ufficiale, l'isola si prestava ai colpi di mano, avendo il naviglio barbaresco la possibilità di dar fondo nottetempo nelle insenature poste nella parte meridionale, e una volta effettuato lo sbarco era agevole per i pirati raggiungere il sito della torre per entrare in azione sul far dell'alba, quando le sentinelle erano meno vigili. Scartando l'ipotesi di nuove opere di fortificazione, che avrebbero risolto il problema degli attacchi di sorpresa, ma con spese rilevanti, il Belly proponeva soluzioni più praticabili, quali la costante sorveglianza delle insenature defilate al tiro dell'artiglieria, la dotazione di granate a mano e tromboni scavezzi e il rafforzamento del presidio con altri tre soldati. Valutando poi le condizioni della torre, prospettò la necessità di riparare la cannoniera di settentrione migliorandone il campo di tiro e occorreva eliminare dalla facciata della torre gli appigli che avrebbero potuto favorirne la scalata, compreso il travetto che sporgeva dal boccaporto utilizzato abitualmente per issare i rifornimenti. Oltre a questo, proponeva di innovare la tecnica di combattimento per renderla più efficace: evitando di esporsi al tiro nemico, i torrieri dovevano dare inizio al contrasto lanciando dalle cannoniere della piazza d'armi granate e pietre sugli attaccanti quando si trovavano ammassati alla base della torre, mentre per fronteggiare l'assalto finale bisognava prendere posizione al centro della terrazza e aprire il fuoco con i fucili e i tromboni nel momento in cui i Barbareschi si apprestavano a scavalcare il parapetto.
In questa relazione di sorprendente acutezza, si insisteva sulla preparazione degli alcaidi, e non veniva trascurato l'aspetto psicologico, poiché si consigliava di aggregare alla guarnigione qualche soldato con esperienza bellica per tenere alto il morale dei difensori nei momenti critici dello scontro. Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire se tali suggerimenti siano stati applicati e quali risultati abbiano dato, ma sta di fatto che la torre cadde in mani barbaresce anche nel 1812, sebbene presidiata da un distaccamento del Corpo d'Artiglieria comandato da un basso ufficiale.
Quello sfortunato evento non segnò la fine del fortilizio di Serpentara, che una volta rimesso in efficienza continuò a operare ancora a lungo. Fu infatti la soppressione della Reale Amministrazione, sancita dal Regio Editto del 17 luglio 1842, che fece venir meno la funzione militare della Torre di San Luigi, ma non la qualifica di posto fortificato, che perse soltanto per effetto del Regio Decreto promulgato il 25 aprile 1867.
A causa del prolungato stato di abbandono, questa antica opera di difesa versa purtroppo in precarie condizioni, e per evitare un ulteriore degrado sarebbe opportuno consolidarla e provvedere al suo completo ripristino al fine di consentirne un corretto riuso.
Come documentano le fonti archivistiche, furono molti i Sardi, e di più parti dell'isola, che vi prestarono servizio, dal momento che la Torre di San Luigi fu operativa per 235 anni. Il primo ad averne avuto il comando fu il Sergente Maggiore di marina Hieronimo Olosa, mentre l'ultimo alcaide fu un certo Matteo Pittaluga, ma è da ricordare anche Michele Nieddu, la cui carriera è meglio conosciuta. Inizialmente venne assegnato con il compito di artigliere alla Torre di Cala Pira, passando poi a quella di Serpentara, dove per un periodo imprecisabile ricoprì lo stesso ruolo, venendo poi promosso al grado di alcaide. Dopo 19 anni di permanenza, lasciò questa sede disagiata per assumere il comando della Torre dei Segnali, ricoperto in precedenza da Bardilio Fenu. Nell'anno 1800, i dirigenti della Reale Amministrazione ne proposero il trasferimento al Forte Sant'Ignazio per prendere il posto dell'alcaide Giovanni Tronci, che a sua volta lo avrebbe sostituito a Calamosca. Questa iniziativa suscitò l'opposizione del Colonnello delle Torri Carlo Quesada, il quale non intendeva privarsi di un alcaide che, per l'esperienza maturata, era in grado di assolvere a un compito di indubbia rilevanza, quale era appunto il controllo del traffico marittimo nel Golfo di Cagliari. Con l'assenso del Vicerè Carlo Felice, la scelta diventò esecutiva, ma il nuovo incarico si rivelò di breve durata, giacché nel marzo 1801 il forte venne disarmato e il Nieddu collocato in aspettativa, continuando però a percepire regolarmente lo stipendio in attesa che si rendesse disponibile un impiego di pari livello.
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