Porta di "Palabanda"
Col toponimo "Palabanda" si è sempre identificato il luogo, alle propaggini del quartiere di Stampace, che oggi la toponomastica della città di Cagliari indica come "S'Ecca Manna". Un tempo era un portico di cui resta l'arco a tutto sesto intitolato ai "Martiri di Palabanda", i patrioti sardi che persero la vita in occasione della congiura liberale del 1812, organizzata dall'Avvocato Salvatore Cadeddu.
L'arco si apre lungo il Corso Vittorio Emanuele, in corrispondenza del tratto alto della Via Caprera, e conduce proprio all'attuale Via Palabanda (si precisa che il nome della via venne stabilito dall'amministrazione comunale nel 1964).
La porta, conosciuta da tutti i Cagliaritani, evidenzia ancora le preesistenti basi dei fornici in opera a blocchi di taglio sovrapposti. Peraltro solo pochissimi conoscono l'etimologia, vale a dire il significato del toponimo "Palabanda", che altro non è che la corruzione del vocabolo francese "platebande", corrispondente all'italiano "architrave". Ma da cosa nasce il riferimento all'architrave e, per di più, attraverso il ricorso alla lingua francese? La ragione deriva dal fatto che, proprio in quel sito, popolarmente chiamato "Su Brugu" (il borgo), esisteva un architrave.
Del borgo di San Bernardo, che costituiva l'ultimo tratto del Corso, vi è menzione in un'ordinanza degli obrieri del 1688. Ma perché il toponimo "Palabanda" aveva un'origine francese? Cercherò di chiarirlo. "Su Brugu" - come ogni agglomerato popolato da persone che aspirano a un posto nell'aldilà - aveva una sua chiesa: era un modesto edificio intitolato a San Bernardo di Chiaravalle (il monaco fondatore dell'Ordine Cistercense), con annesso convento. Precisamente la chiesa sorgeva, sempre sul lato dove ora insiste l'antico portico, all'altezza dell'incrocio con la Via Carloforte. Sulla base della regola che disciplinava la vita di tale comunità, per i frati che ne facevano parte era obbligatorio parlare in Francese.
All'epoca - siamo ben prima dell'editto di Saint Cloud voluto da Napoleone - i defunti venivano seppelliti nei sagrati e persino all'interno degli edifici religiosi. In tale contesto, "platabande" indicava l'architrave presente nel cancello d'ingresso del cimitero dei frati entro il cui recinto è assai probabile che trovassero sepoltura anche i defunti del borgo circostante. Il cimitero si trovava dietro l'abside della chiesetta di cui non esiste più traccia, ma che risulta presente nelle vecchie carte del luogo.
L'edificio religioso, sin dalla metà dell'Ottocento, si trovava in stato di rovina, per cui, intorno al 1880, venne venduto a un privato (il signor Pietro Pani) che successivamente realizzò un palazzo: è quello che insiste ai civici 293-295 del Corso Vittorio Emanuele. Alcuni elementi architettonici tuttavia furono inglobati nell'edificio privato. Inoltre, la piccola campana in bronzo che faceva parte della chiesa di San Bernardo venne salvata e ora si trova nell'altare maggiore della chiesa di Sant'Anna, dalla quale la chiesetta del Corso dipendeva (come attesta Vittorio Angius nella voce "Cagliari" del "Dizionario del Casalis").
Lo stesso canonico Spano, nella sua celebre "Guida di Cagliari" edita nel 1861, ci dà notizia della chiesa di San Bernardo, precisando che nell'unico altare era collocato un bel simulacro del santo titolare, opera del Lonis. Inoltre, ci informa che era presente una "Madonnina" copia del Sassoferrato (il pittore seicentesco Giovanni Battista Salvo). Sulla base delle fonti d'archivio sinora conosciute, la chiesa dovrebbe risalire agli inizi del Seicento (la sua presenza è attestata per la prima volta nel 1614), ma potrebbe essere persino anteriore. Nel 1620 erano in corso i lavori di ristrutturazione dell'edificio.
Per concludere, è assai probabile che il "platebande", nella sua materialità, fosse stato ricavato da qualche elemento di marmo di cui era ricca tutta l'area attigua alla "Villa di Tigellio". Al tempo della realizzazione della chiesa di San Bernardo, infatti, era assai diffuso edificare sopra i ruderi di antichi edifici e riutilizzare i materiali di spoglio a disposizione. Del resto, proprio in prossimità di "S'Ecca Manna" venne reperito anche il famoso mosaico di Orfeo, che i Piemontesi portarono a Torino per esporlo nel Regio Museo Egizio, come attesta lo Spano nell'opera citata.