Sopra: Antonio Pennacchi (Latina, 1950-2021)
Sotto: copertina del volume sulle città del Duce
È deceduto il 3 agosto scorso, a Latina, lo scrittore Antonio Pennacchi.
Era nato nella città laziale fondata dal fascismo il 26 gennaio del 1950. I genitori, padre umbro e madre veneta, furono tra i protagonisti della bonifica delle paludi pontine negli anni trenta.
Pennacchi, politicamente parlando, provò di tutto e di più: da missino a maoista, da socialista a comunista, da iscritto alla Cgil alla Uil, da militante del Pd alla candidatura con la lista dell'ultimo Gianfranco Fini.
A partire dalla fine degli anni novanta si diede alla letteratura.
Esordì, dopo non poche difficoltà, con il romanzo "Mammut" del 1994, l'anno successivo pubblica "Palude", nel 2005 "Fascio e Martello" seguito poi dal "Canale Mussolini" che ebbe il premio Strega. Poi, colpa di Lucio Caracciolo, il direttore della rivista di geopolitica "Limes", che gli aveva commissionato un articolo per ogni città che aveva fondato Mussolini, si improvvisò storico, perché, come lui stesso racconta: «
Ho dovuto studiare, documentarmi. E più mi documentavo, più mi accorgevo che gli altri- gli storici di professione, ivi compresi quelli dell'urbanistica o dell'architettura, ci avevano messo più "inventio" di me... e m'è toccato cambiare registro: la storia vera la stavo a fare io [...]. Ma a te pare che uno storico di professione possa continuare a dire per quarant'anni che il Duce ha fatto 12 città, senza accorgersi invece che ne ha fatto almeno 147, tra grandi e piccole? Dice: vabbè, ma abbiamo costruito tanto pure noi nel dopoguerra. Che ragionamenti. Sono buoni tutti, quando hai fatto i soldi e ti sei ritrovato la strada spianata [...]. Ma quando le hanno fatte loro non c'era una lira e tutte le pianure del nostro paese - soprattutto nel Centro-Sud - erano completamente abbandonate da secoli [...]. La pianura italiana era un deserto, "un deserto paludoso-malarico" dicono i geografi. E quelli- tra gli anni venti e quaranta - sono andati a riconquistarlo, con 147 nuove fondazioni. Hanno ripopolato la pianura».
E da qui il volume di carattere storico "Fascio e Martello - Viaggio per le città del Duce" del 2008.
Ma non per questo Pennacchi vanta primogeniture, anzi dichiara di rifarsi ad autori molto datati e, in particolare, a un autore sardo: «
C'era soprattutto Stanis Ruinas che aveva pubblicato un libro, "Viaggio per le città di Mussolini", nel 1939. Come non riprenderlo? Stanis Ruinas era forte. Era Sardo [...]. Era un fascista, ma un fascista di sinistra, che non vuol dire antifascista, bensì più fascista degli altri. Così si fa tutta la Rsi e si beve il suo calice sino alla sconfitta. Ma dopo la guerra continua a battagliare. Da fascista. Solo che secondo lui il vero posto dei fascisti- quelli che hanno creduto davvero ai valori della Repubblica Sociale - è a sinistra, al fianco stretto dei socialisti e dei comunisti [...]. Quasi quasi, per lui, gli antifascisti veri stavano nel Msi».
Detto quanto c'era da dire su Pennacchi, ci pare opportuno riportare quanto da lui scritto su Carbonia, nel saggio dal titolo singolare: "Carbonia Hag"
Ottobre 1999... A Carbonia fanno un caffè Hag che è la fine del mondo.
Un caffè Hag non nel senso di marca, ma di decaffeinato...
Dice: "vabbè", ma che sei andato sino a Carbonia solo per prendere un caffè? No, tutt'altro... ma mi sono stufato di avere discussioni tutte le volte che entro in un bar. Chiedo un caffè Hag... «
Stretto. Molto stretto. Poche gocce»... E quelli, tutte le volte, mi guardano sempre strano, come se fossi un minorato: «
Scusi perché non prende un caffè normale?», mi consigliano.
A Carbonia no. Al Caffè Impero, specialmente, fanno un caffè Hag che è la fine del mondo. Meglio di quello vero. E ne puoi prendere quanti te ne pare. Bello ristretto, cremoso. Pieno di sapore. Che t'accendi subito la sigaretta. Una appresso all'altra. Alla faccia del cardiologo. Che è peggio di un barista.
Mi pareva una scoperta da dover socializzare.
A Carbonia c'è una torre. O meglio, non sarebbe proprio una torre, ma tutti la chiamano così: "torre Littoria". E in effetti si chiama così fin dall'inizio, da quando la costruirono nel 1938.
Ormai era diventata un'abitudine. Non solo quella di fare le torri, ma proprio quella di fare le città... Una appresso all'altra... dalla mattina alla sera non faceva (il Duce, n.d.r.) che mettere prime pietre e tracciare solchi sacri. Alla fine ne hanno fatto centocinquanta, tra grandi e piccole, in tutta Italia - senza naturalmente contare i villaggi in Libia, Etiopia e Dodecaneso - dall'Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno: Istria, Friuli, Sardegna, Agro pontino, Puglia, Sicilia.
In soli 10 anni. Dal '32 al '43.
E meno male che hanno perso la guerra e hanno dovuto smettere...
A Carbonia difatti c'è una torre... È un affare in trachite, una pietra di quelle parti che loro dicono che è rosa... È un affare comunque imponente, che si vede da lontano.
Suddivisa in cinque piani, è alta quasi 28 metri - 27,50 per la precisione - su base rettangolare di 11 metri per 15, pari a 165 metri quadri. Base troppo larga quindi, per un corpo di soli 4 mila metri cubi e alto meno di 28 metri.
In termini armonici. Come "torre" è nana. Mozza. Tagliata a metà. Avrebbe dovuto essere alta almeno il doppio.
Questa di Carbonia quindi non è una torre, è alta grossa, massiccia e imponente. È sicuramente bella e resta impressa nella memoria.
Ma non è una torre, ma una "mole". Se almeno l'italiano non è un'opinione.
Ma adesso chi glielo va a dire a quelli di Carbonia che debbono... da un momento all'altro... smettere di chiamarla "torre" e chiamarla "mole Littoria"?
Uno che viene da Latina a Carbonia si sente a casa sua. E non solo perché ci trova i verdi e le zanzare, ma proprio perché c'è la stessa aria, lo stesso climax: la gradazione cromatica; l'accostamento successivo e la giustapposizione degli stili; il passaggio per gradi, la progressione e la successione del "sentimento" delle cose, la sequenza ascendente.
Sono le due città che si somigliano di più - a vederle oggi- tra tutte quelle del ventennio...
Il tessuto delle strade è rimasto lo stesso, pieno però di traffici, di vita.
Latina è in piano, Carbonia è un monte.
Ma la differenza non si coglie. La speculazione edilizia nel dopoguerra s'è data da fare.
I palazzi a più piani in cemento armato... hanno spesso preso il posto delle case basse e degli archi romani... dell'età del Duce.
Ma non hanno obliterato tutto. Si aggiungono. Si susseguono.
Si giustappongono...
Nel Sulcis peraltro già nel secolo scorso (l'Ottocento) erano state trovate tracce di qualcosa che somigliava al carbone. Ma gli assomigliava alla lontana. E i ricercatori erano subito scappati via...
Nel 1935 però conquistammo l'Impero e la Società delle Nazioni ci decretò le sanzioni.
Nessuno avrebbe più dovuto venderci il carbone, che compravamo tutto all'estero... Come ci mettevamo con questa storia delle sanzioni?
«
Con l'autarchia!», rispose il Duce: «
Facciamo tutto da soli».
E infatti inventammo il terital, il lanital, il caffè di cicoria - un antesignano del caffè hag - e tanta altra roba.
Qualcuno si ricordò pure di quella specie di carbone Sulcis... «
Ma non è carbone» gli dissero: «
È lignite»... «
Lignite o carbone, che differenza fa? Questo abbiamo».
«
Altro che lignite, altro che carbone inglese», disse il Duce il 9 giugno 1935 dopo aver soppesato bene bene - in una visita ad hoc al pozzo di Bacu Abis - un pezzo di minerale e averlo annusato, traguardato contro luce col braccio teso e riannusato un'altra volta: «
Questo è il carbone Sulcis, il potente carbone italiano!». E il 26 luglio - un mese e mezzo dopo - veniva costituita l'Acai (Azienda carboni italiani), una specie di Eni di allora, piena di soldi e di poteri...
Proconsole unico fu nominato il commendator Guido Segre...