Dalla limitatezza al dialogo
Ogni volta che due persone di pensiero politico diverso, si confrontano su politica e storia, si arriva inesorabilmente a toccare l'argomento "cultura".
Quasi sempre l'esito è scontato: la persona di sinistra inizierà un discorso su una presunta superiorità storica culturale, che parte da Marx (praticamente il Big Bang per certa sinistra), prosegue con Gramsci (intellettuale di tutto rispetto) e si conclude con qualche intellettuale attuale (spesso e volentieri uno di quelli che fa continui pistolotti su immigrazione, sessualità, ambiente e razzismo tramite social network o uno di quei "cantanti" con testi incentrati su come mescolare le droghe).
Il discorso ovviamente si conclude su una fantasiosa assenza di cultura a destra, infarcita di luoghi comuni e stereotipi dove l'uomo di destra è raffigurato come un bruto senza cultura, interessato soltanto a bere e fare risse.
Ovviamente essi ignorano personaggi e intellettuali di spicco, non di sinistra, come Giovanni Gentile, Gabriele d'Annunzio, Luigi Pirandello, Julius Evola, Ezra Pound, Giuseppe Prezzolini, Giovannino Guareschi, e lo stesso Benito Mussolini (anche se a loro non piace ammetterlo).
Anche ai giorni nostri ci sono tanti intellettuali d'area, giovani e meno giovani, che si occupano di cultura nel vero senso del termine e scrivono libri di qualità, ma che non riescono a emergere a causa del pensiero dominante a livello mediatico.
È lampante come gli intellettuali validi ci siano sempre stati, e tutt'ora ci sono, nei vari schieramenti politici; ma come si è arrivati al punto di avere quasi soltanto persone di sinistra a fare cultura?
Sicuramente ci sono due date da tenere in conto: la prima è il 1945, anno della fine della seconda guerra mondiale e che ha visto la fine di stati a trazione nazionalista come la Germania nazista e l'Italia fascista, con conseguente fine del controllo sull'istruzione; la seconda è il 1968, l'anno di rottura per le scuole a livello internazionale e che ha creato degli ambienti sempre più schierati a livello politico, dove si è concesso a personaggi più interessati a fare comizi in aula che a fare lezione (modus operandi che continua tutt'oggi) di "occupare" le facoltà universitarie.
Tornando alla prima data, il 1945, con la caduta del fascismo si decise di epurare (chi non veniva ucciso) dalle scuole, dallo spettacolo e dalla cultura in generale, chiunque avesse avuto affinità con suddetta ideologia o che non si allineava al nuovo pensiero dominante. Una sorta di ripicca storica per il "giuramento di fedeltà al fascismo" richiesto ai docenti universitari nel 1931, ma riveduto e corretto in salsa comunista (con il mito della libertà di pensiero, purché coincidesse con il loro).
Il problema è che se nel 1945 l'atteggiamento era in parte comprensibile (ma non giustificabile), a distanza di 75 anni non lo è più; in quanto è assurdo sentire al giorno d'oggi di giornalisti, attori, cantanti, scrittori, medici e insegnanti che vengono allontanati (o licenziati) per posizioni non allineate al nuovo pensiero unico di stampo globalista o politicamente non corrette (e il problema non si limita all'Italia); mentre chi si schiera con il pensiero dominante gode di un posto sicuro e la luce dei riflettori, pur essendo un personaggio o "artista" di scarso o nullo valore.
Certo, come ho detto prima, le persone culturalmente di valore ci sono anche tra coloro che sono schierati con la classe dominante; ma cosa direbbe Antonio Gramsci se vedesse i rappresentanti di spicco della "cultura moderna"? Personaggi che passano il tempo a condividere foto e "influenzare" su concetti che di sinistra ormai non hanno più nulla; o che "cantano" ai giovani concetti come la "cultura dello sballo" e dell'auto-distruzione?
L'unica certezza è che la cultura è la chiave per il controllo di qualunque popolo.
Se essa è sana, il popolo potrà soltanto trarne beneficio e prosperare, ma quando essa è auto-distruttiva, il risultato potrà essere solo uno. La sua dissoluzione.