Sopra: Aleksej Navalny, nato a Butyn il 4 giugno 1976,
laureato in leggi, giornalista e politico
Sotto: Ebru Timtik (1978-2020), avvocato e attivista di
origine curda
Navalny, di nome Aleksej, è un personaggio famoso, in particolare in quest'ultimo periodo. È stato ed è su tutte le pagine dei giornali e nei notiziari della televisione, dopo che, sul volo di ritorno a Mosca dopo un suo viaggio in Siberia, è stato colpito da malore. Ricoverato a Omsk, in Russia, è stato successivamente trasportato - su sollecite pressioni di Angela Merkel - in un ospedale in Germania. Dopo opportune analisi la diagnosi è stata: avvelenamento da "novichok", lo stesso agente nervino utilizzato per avvelenare l'ex spia russa Sergei Skripal e la figlia Yulia a Salisbury nel 2018.
Navalny, 44 anni, è il più noto oppositore di Putin ed è considerato un eccellente giornalista investigativo. I suoi articoli sugli scandali e la corruzione nel regime di Putin lo hanno portato più volte in carcere, spesso con pretesti inesistenti che mascheravano le vere ragioni politiche.
«
Con Yeltsin la corruzione era un problema, con Putin è diventata sistema». Questa sua frase, pronunciata lo scorso anno durante una delle sue scarse apparizioni televisive, era diventato lo slogan dei candidati alla Duma di Mosca del progetto "Voto Intelligente".
A chi gli chiedeva per l'ennesima volta «
Ma lei, perché è ancora vivo?», Navalny rispondeva sempre «
Perché per il Cremlino io sono più un problema da morto». È ancora vivo.
Cambiamo completamente registro: il secondo personaggio è una donna, Ebru Timtik: per me una completa sconosciuta e penso altrettanto per la maggior parte dei lettori.
Faceva parte di un gruppo di avvocati, membri di diverse associazioni attive nella difesa di casi particolari nei processi contro gli attivisti contrari al regime di Erdogan che si svolgevano in Turchia.
Era stata condannata a 13 anni e 6 mesi di carcere con l'accusa di collaborazione e di legami con il Fronte Rivoluzionario della Liberazione Popolare. Ebru Timtik è morta in carcere il 27 agosto scorso dopo 238 giorni di sciopero della fame. Pesava trenta chili, ma le sue richieste di appello sono state sistematicamente rigettate, nonostante un referto medico attestasse, nel luglio scorso, che le sue condizioni fossero critiche.
Il 3 settembre scorso la Corte di Cassazione di Ankara ha ordinato la scarcerazione di Aytac Unsal per motivi di salute, dopo 213 giorni di digiuno. La richiesta di Ebru Timtik giace ancora presso la Corte Suprema della Turchia.
Sul caso di Navalny si sono mobilitati la Nato (perché?), l'Europa, che ha minacciato nuove sanzioni, e la nostra Farnesina, che si è mostrata inquieta e indignata. Giuste preoccupazioni, anche se le colpe di Putin e del Cremlino non sono ancora chiare, ma un po' di indignazione preventiva non guasta mai.
Su quanto avviene in Turchia le organizzazioni di cui sopra invece tacciono. Erdogan sistematicamente mette a tacere la flebile opposizione che riesce a far sentire la sua voce in quel paese che qualche anno fa premeva per entrare a far parte dell'Unione Europea.
Fa parte della Nato, ma questo non impedisce che tanti oppositori di quel regime muoiano di stenti in carcere: tra i più recenti Helin Bolek, Mustafa Kocak e Ibrahim Gokcek, membri di una band musicale che la stessa Tomtik aveva cercato di difendere.
Le proteste - anche se preventive - sul nebuloso caso di Navalny, che difficilmente troverà chiarezza allo stesso modo di casi analoghi di personaggi ostili a Putin, sono giustissime.
Ma sarebbe altrettanto giusta un protesta almeno altrettanto veemente nei confronti del sultano turco.
Perché questa disparità?
In Russia pare ci siano circa 300 prigionieri che possono essere etichettati come politici. In Turchia ci sono circa 30 mila oppositori politici legati al movimento di Fethullah Gulem, accusati del tentato golpe del 2016. E con loro altri 9 mila militanti del Pkk o altri movimenti curdi e infine un centinaio di giornalisti accusati di connessioni con il terrorismo. Personaggi i cui processi si terranno - se mai avverrà - chissà tra quanti anni.
Su tutto questo Nato, Europa e Farnesina hanno sempre taciuto e continuano a tacere. Per questo motivo le proteste sul caso Navalny suonano abbastanza ipocrite.
Putin è un personaggio controverso e sul suo comportamento che non risponde certamente ai nostri concetti di democrazia andrebbe condotta un'analisi accurata e scevra da pregiudizi. La Russia è l'erede di un sistema di governo che difficilmente rientra nei nostri canoni. Ma è un paese profondamente differente. E Putin è un personaggio che - pur con tutte le sue contraddizioni - ha un comportamento prevedibile.
Erdogan è diverso: annulla le elezioni i cui risultati non sono quelli attesi, mette a tacere tutte le voci di dissenso nei suoi confronti, non esita a limitare libertà fondamentali, viola sistematicamente i diritti umani dei suoi cittadini. Tutto questo acclarato dalla stessa Unione Europea in un rapporto del 2019 nel quale si riesaminava la possibile adesione di Ankara alla Comunità.
Erdogan non è come Putin: è imprevedibile e lo dimostra il suo comportamento nello scacchiere del Mediterraneo, dalla Libia al contenzioso con la Grecia sulle ricerche del gas nel mar Egeo.
Allora non è ipocrisia, questo usare due pesi e due misure in casi - Navalny e Timtik - quasi analoghi: è paura. Una maledetta paura di urtare un personaggio come Erdogan.
La stessa paura che fa dire a Papa Bergoglio che è "addolorato" per la trasformazione della Cattedrale di Santa Sofia in moschea.
La stessa paura che fa spendere al Papa, all'Europa, alla Farnesina parole di preoccupazione per la Bielorussia e qualche parola - in tono sommesso (e dal Papa mai) - per le brutali repressioni delle manifestazioni di dissenso a Hong Kong.
È ovvio: da una parte c'è un Lukashenko qualunque e dall'altra Xi Jinping e la grande Cina.
La violazione dei diritti umani da parte degli Stati è in costante crescita e i rapporti di "Human Rights Council" lo dimostrano. Il concetto di democrazia si sta sfaldando sotto i colpi sempre più violenti che i mutati scenari economici impongono ai diversi regimi.
Ma se si vuol fare dell'indignazione una seconda professione - sia come Governi, che come organismi internazionali o come autorità religiose - occorrerebbe togliersi il paraocchi e guardare ciò che avviene nel mondo, in tutto il mondo, con lucidità e giustizia.