In questo periodo di forzata clausura lo scorrere del tempo è cadenzato da un intensificarsi delle letture e si affrontano libri che magari da anni sono posti in bell'ordine in attesa di essere letti.
Lo spunto nasce dall'aver appena terminato la lettura di un libro di Jared Diamond, autore del celebre "Armi, acciaio e malattie" che gli valse nel 1998 il Premio Pulitzer. Il libro cui mi riferisco (che comunque è del 2019) si intitola "Crisi - Come rinascono le nazioni" ed è - purtroppo - particolarmente appropriato per definire il terribile momento che stiamo attraversando.
Dal punto di vista etimologico "crisi" deriva dal sostantivo greco "krisis" e dal verbo "krino", due termini che si riferiscono all'area semantica di "separare", "distinguere", "decidere" e quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, di svolta, un momento dal quale prendere decisioni che mutano radicalmente la situazione precedente.
C'è un ideogramma cinese traducibile come "crisi" che corrisponde alla pronuncia "wei-ji" e si compone di due caratteri: il primo, "wei", significa "pericolo", e il secondo, "ji", significa "circostanza cruciale, punto critico, occasione".
Quello che mi ha colpito - e che è ovviamente lo spunto dal quale ha origine il libro di Diamond - è proprio il termine "occasione".
Nietzsche espresse un'idea analoga nel suo aforisma da "Il crepuscolo degli idoli": «
Quel che non mi uccide, mi rende più forte» e poi Winston
Churchill con «
Mai sprecare una buona crisi».
Diamond parte dall'idea che ognuno di noi, nella propria vita, è costretto, prima o poi, ad affrontare crisi e da queste avviare dei cambiamenti. Questo succede anche a gruppi, comunità, aziende e nazioni. Le cause possono essere le più disparate, ma il punto fondamentale diventa la capacità di prenderne atto e di mettere in campo quei cambiamenti necessari per superare lo stato di crisi.
Diamond analizza le situazioni di crisi - generate da cause interne o esterne, traumatiche o meno - di sei nazioni, Finlandia, Giappone, Cile, Indonesia, Germania e Australia, e delle azioni intraprese da ciascuna di loro per affrontare la crisi e superarla.
La crisi della Finlandia fu generata il 30 novembre 1939 da un massiccio attacco militare da parte dell'Unione Sovietica. Nel conflitto che ne seguì, "la guerra d'inverno", la Finlandia fu lasciata sola da tutti i suoi potenziali alleati, subì gravi perdite, ma riuscì comunque a conservare la sua indipendenza.
La seconda crisi, anch'essa generata da uno shock esterno, fu quella del Giappone quando l'8 luglio 1853 una flotta di navi della marina militare statunitense entrò nella baia di Tokyo e impose la firma di un trattato che garantiva alle navi e ai marinai americani di entrare nei porti nipponici. Finì così il secolare isolamento del Giappone e prese inizio un drastico cambiamento del sistema di governo e un programma di riforme, ma anche il mantenimento di alcune caratteristiche e prerogative tipiche del paese (il rapporto con l'imperatore, la lingua e l'uso degli ideogrammi per la scrittura e altri). Finì comunque l'era dello shogunato.
Un'altra nazione presa in esame, il Cile, vide l'origine della sua crisi dettata da cause interne, cioè dal colpo di stato che l'11 settembre 1973 vide il rovesciamento del governo Allende da parte del generale Pinochet. Dopo diciassette anni di infame e crudele regime militare, il Cile uscì da quella dittatura durante la quale furono comunque effettuati dei cambiamenti che la resero nuovamente democratica e con un'economia tra le più prospere dell'America del Sud.
Un'altra crisi di origine interna fu quella attraversata dall'Indonesia che il 1º ottobre 1962 subì un tentativo di colpo di stato. Fu l'avvio del cambio di regime - da Sukarno a Suharto - e della conquista di un'identità nazionale prima del tutto assente.
La quinta nazione esaminata è la Germania e l'autore esamina i cambiamenti del secondo dopoguerra, dall'eredità del periodo nazista, le proteste contro l'assetto fortemente gerarchizzato e il trauma della divisione territoriale. Partì un graduale avviamento di un processo di riconciliazione con i paesi vicini, grazie soprattutto al cancelliere Willy Brandt, fino ad arrivare alla riunificazione delle due Germanie.
L'ultimo paese esaminato è l'Australia, crisi questa non "esplosiva", ma che in cinquant'anni ha rimodellato l'identità dell'Australia, paese prima totalmente rivolto e dipendente dalla Gran Bretagna e ora proiettato verso i paesi della sua area geografica di appartenenza.
Analizza infine due situazione attuali nelle quali - a suo parere - sono presenti situazioni di crisi non risolte: negli Stati Uniti e in Giappone e infine esamina alcuni dilemmi che affliggono il mondo intero e che in futuro potranno portare a crisi di portata globale.
È un libro affascinante soprattutto per la scioltezza del linguaggio e l'approccio discorsivo ma esauriente che Diamond, che avevo appunto già apprezzato in due altri suoi testi, è capace di mettere in campo.
Torniamo ora al difficile e drammatico momento che stiamo attraversando, con un susseguirsi di bollettini di contagi, morti e guariti che coinvolgono tutta l'Italia e in particolare le regioni del nord.
Ora attraversiamo una crisi sanitaria e si intravvedono le prime avvisaglie di una crisi economica dal profilo drammatico: saremo tutti chiamati a concorrere - in misura più o meno grande - alla sua soluzione, mettendo in campo quelle risorse di intraprendenza e fantasia che ci hanno sempre contraddistinto, ma soprattutto sentimenti di vicinanza e di solidarietà necessari per sopravvivere.
Diamond espone in dodici punti quelli che sono i cardini necessari per uscire dalla crisi.
1.
Riconoscimento dello stato di crisi. È il punto di partenza ed è un punto cruciale: il non riconoscimento immediato dello stato di crisi o la sua sottovalutazione o addirittura la sua negazione non fanno altro che aggravare la crisi stessa e renderne più difficile la soluzione. Nel caso del Covid-19 non sono sicuro che questo punto sia stato rispettato del tutto.
2.
Accettare le responsabilità, rifuggire dal vittimismo ed evitare di autocommiserarsi e addossare la colpa ad altri. L'accettazione delle proprie responsabilità da parte del soggetto politico è la premessa per le decisioni successive da mettere in campo e spesso la ricerca di soluzioni concertate è una fuga dalle responsabilità politiche che certi ruoli invece presuppongono in solitudine. Ma questo è un mio modesto parere.
3.
Delineare i confini e il cambiamento selettivo. Occorre individuare le cose che funzionano e quelle che non funzionano e utilizzare le prime per cambiare le seconde. Bisogna rifuggire dall'idea di rivoluzionare tutto per ripartire.
4.
Aiuto dai paesi terzi. Questo è un punto dolente nella nostra situazione, almeno fino al momento in cui scrivo: la chiusura unilaterale delle frontiere, le discriminazioni messe in campo, il sequestro di presìdi sanitari destinati all'Italia e altri comportamenti simili, sono sotto gli occhi di tutti.
5.
Usare le altre nazioni come modelli. La Cina e la Corea del Sud avevano attraversato la nostra stessa crisi, ma ci siamo rifiutati di seguire il loro modello comportamentale, forse perché non abbiamo riconosciuto la stessa gravità del fenomeno o forse perché - erroneamente - abbiamo giudicato poco democratiche le misure adottate laggiù. Errore imperdonabile. Il legame con il punto 2 è evidente.
6.
Identità nazionale. Al di là delle bandiere esposte, dell'inno nazionale suonato o cantato tutti insieme, le oltre 50 mila sanzioni comminate - fino a oggi - ai trasgressori delle disposizioni impartite, l'esistenza endemica dei soliti "furbetti" mostrano scarsità di identità nazionale.
7.
Autovalutazione onesta. Questo punto mi pare interpretato correttamente, a differenza di altre nazioni che stanno attraversando una crisi simile, avviata dopo di noi: il puntuale resoconto di ciò che sta avvenendo - dopo il disordine iniziale e la confusione provocata da troppi e incapaci "comunicatori" - credo dimostri la comprensione di questo punto.
8.
Esperienza storica di precedenti crisi nazionali. È una situazione che non ha precedenti simili: altre emergenze appartengono a periodi troppo lontani per poter essere di ispirazione agli attuali provvedimenti necessari.
9.
Pazienza di fronte agli insuccessi. Occorre metterne in campo tantissima, da parte dei singoli ma anche da parte dello Stato.
10.
Flessibilità nazionale in situazioni specifiche. È una situazione nella quale soprattutto i soggetti politici dovrebbero accantonare rigidità ideologiche e pensare all'interesse comune. Mi viene in mente solo il nome di Bertolaso e le reazioni assurde che ha provocato.
11.
Valori fondanti nazionali. Mi trovo un po' in difficoltà nell'individuare quali sono i nostri valori fondanti da mettere in campo. Ho bisogno di aiuto.
12.
Libertà dalle costrizioni geopolitiche. In questo caso vale tutto: i vincoli legati alla nostra appartenenza alla Comunità Europea non sono certo stati equilibrati dalle azioni di solidarietà della stessa. Si va dalla pessima esibizione dei vertici della Comunità Europea ai risvegli tardivi dopo gaffe colossali. Ci sarà forse in futuro una vicinanza economica, ma la scarsa solidarietà dimostrata rischia di compromettere fiducia e futuro dell'istituzione. Resterà in piedi un'Europa ancora basata sulla moneta, ma credo che chi ancora viveva la Comunità come un luogo di ideali debba ricredersi.
Sono modeste riflessioni su una crisi che ci tocca tutti da vicino: i nostri comportamenti, le nostre abitudini, il nostro stile di vita è cambiato. Forse quando tutto sarà passato, ritorneranno le vecchie, ma al di là di questi aspetti esteriori è fondamentale che ciascuno di noi sia cambiato al suo interno e sappia riapprezzare e valorizzare le grandi cose che sono la nostra vita e che la frenesia dell'avere ha messo in secondo piano. Le amicizie, gli affetti, i gesti di tenerezza, la caducità stessa delle cose che ci circondano e anche la piccolezza di noi stessi.
Non ci spero tanto, ma forse è a causa del mio scetticismo di fondo.
Del resto è sufficiente osservare come si comporta la nostra classe politica, con una solidarietà di facciata e un continuo abbaiare dietro le quinte (facendo in modo che la stampa ne sia a conoscenza). Perfetto emblema di questa comunanza d'intenti è stata la sceneggiata di Conte in tv: non si era mai visto un Presidente del Consiglio inveire in questo modo contro l'opposizione. E meno male che doveva essere "l'avvocato di tutti"! Però è comprensibile: ha dovuto affrontare questa emergenza praticamente da solo.
È vero, ha a Palazzo Chigi solo 270 dirigenti; può contare su 21 ministri e 42 sottosegretari; ha l'ausilio del Consiglio Superiore di Sanità e dell'Istituto Superiore di Sanità (chissà se esiste anche un livello "inferiore"); poi c'è la Protezione Civile e il suo comitato tecnico scientifico. E siccome questi cervelli sono pochi, ha istituito un commissario per il coordinamento della lotta al virus (Arcuri e altri 39) e ora Colao con altri 17 esperti nel comitato tecnico-economico.
Conte sembra un novello WC che affronta l'emergenza nazista in perfetta solitudine.
Non parliamo di competenza: non si chiede certo che sia un virologo a governarci. Cossiga amava dire che la politica è esperienza, capacità, fantasia e intuizione. Conte è solo uno che sa parlare (De Niro direbbe «
sei solo chiacchiere e distintivo»).
Se poi ripensiamo all'Europa ci rendiamo conto che il suo motto "in varietate concordia", ha mantenuto solo la diversità, perché di concordia - e in questo caso di solidarietà necessaria - non se ne vede neanche l'ombra. Manca la fiducia fra gli stati. È un paesaggio di desolazione.
L'unica speranza è, come tante volte è accaduto, che queste profezie si rivelino fallaci e la nostra società sappia ritrovare quei valori non perduti, ma, per il momento, dimenticati.