Che fine ha fatto la nostra bella lingua?
Fiumi di parole inondano da settimane i mezzi di comunicazione di massa, così come i nostri cellulari e computer, in gran parte dirette a raccontare, spiegare e trasmettere informazioni, dati e istruzioni, ma anche numerosi provvedimenti governativi, sul famigerato covid-19, meglio noto come coronavirus.
L'argomento non è certamente frivolo e se ne farebbe volentieri a meno, ne siamo convinti, ma è necessario rendere partecipi tutti della gravità della situazione, delle conseguenze e degli accorgimenti da prendere per farvi fronte. Quindi occorre parlarne, discuterne e comunicare, con chiarezza ed efficacia, per raggiungere l'intera popolazione, tenendo conto d'importanti fattori, tra i quali età e istruzione.
Troppo spesso, invece, governanti, amministratori, esperti, giornalisti, intrattenitori e quanti in genere si rivolgono a cittadini, lettori, spettatori o ascoltatori perdono d'occhio questo obiettivo e trasmettono informazioni e messaggi infarciti di espressioni oscure, contorte, difficilmente interpretabili, non resistendo alla tentazione di utilizzare frequentemente vocaboli stranieri in luogo di quelli italiani, sovente ritenuti, chissà perché, meno "nobili".
Abbiamo imparato che il composto binominale "coronavirus" significa "virus a forma di corona" ed è d'innegabile origine inglese, come prova il costrutto con testa a sinistra, sebbene coniato mediante elementi latini, e che covid-19 è un acronimo composto da CO (corona), VI (virus), D (disease, malattia) e 19, l'anno d'identificazione del virus.
E fin qui niente da eccepire: sono termini tecnici, universalmente conosciuti e propriamente utilizzati. Ma non si capisce perché tanti parlanti e scriventi in lingua italiana debbano sostituire parole ed espressioni esistenti nel nostro vocabolario con forme lessicali proprie di altri idiomi. Avrebbe senso se al termine straniero, perlopiù inglese, si affiancasse il corrispondente italiano a scopo esplicativo, con funzione, potremmo dire, didattica.
Invece ci viene ripetuto di stare attenti alle "fake news", le nostrane "false notizie", dette anche bufale. Ci hanno spiegato in tutti i modi che dobbiamo rispettare il "droplet", letteralmente "gocciolina", ma per estensione usato per indicare la distanza minima necessaria per impedire che le goccioline di saliva non arrivino ad altre persone starnutendo, tossendo o semplicemente parlando. Ci è stato detto che per affrontare l'emergenza sarebbe stata necessaria una "task force", ovvero un "gruppo di esperti", e non s'è ancora capito se lo siano realmente. Hanno invitato i lavoratori che possono farlo a convertirsi allo "smart working", che altro non è se non il "lavoro agile" svolto presso le proprie abitazioni per evitare il più possibile uscite superflue, come quelle che hanno fatto diventare improvvisamente tutti novelli "runners", che fa più scena di "corridori".
E siccome parlare di "serrata obbligatoria" in tempo di pace sembrava brutto, ecco che nel Belpaese è giunto il momento del "lockdown", forse per sdrammatizzare o forse per la nostra solita smaccata esterofilia, che ci consente di sentirci davvero cittadini del mondo solamente se, ordinando del cibo "a domicilio" alla gastronomia sotto casa, ci sentiamo rispondere: «
Nessun problema, abbiamo il "delivery"!».
Non si tratta, dunque, di pretesa di superiorità della lingua italiana, bensì del legittimo riconoscimento di una ricchezza lessicale con pochi eguali e della necessità di ribadire che una comunicazione comprensibile e precisa è un dovere per chi la dà e un diritto per chi la riceve.