Il processo
Intanto il procedimento penale iniziato dal pretore di Amelia venne trasferito per competenza al tribunale di Terni, ove il giudice istruttore procedette contro gli imputati per i delitti di devastazione e saccheggio, sequestro di persona, rapina e collaborazionismo.
Nel luglio del '45 tutti gli imputati vennero arrestati, eccetto Pattarozzi e il cognato, che pochi giorni prima dell'arrivo degli Inglesi si erano ritirati al nord.
Ma Pattarozzi, pure uccel di bosco, non rinunciò ai gesti spettacolari.
Lasciamo di nuovo la parola al Marcellini: «Era passato oltre un anno dal giorno in cui il giudice istruttore aveva ordinato la cattura dell'introvabile Gaetano Pattarozzi, quando alla fine del luglio 1946 un avvocato di Roma, Domenico Uras, fece pervenire al giudice istruttore una memoria difensiva con la quale respingeva tutte le accuse mosse all'ex commissario di polizia di Amelia.
La tesi del legale poggiava su una ricostruzione dei fatti completamente diversa da quella fornita dalle vittime dei rastrellamenti e delle torture.
In particolare si sosteneva che durante il rastrellamento del 13 marzo 1944, i paracadutisti al comando del maggiore Schweigher avrebbero voluto mettere a ferro e a fuoco l'intero paese e che se ciò non accadde il merito fu del commissario Pattarozzi [...]. Inoltre, secondo l'Avvocato Uras, il suo assistito si sarebbe limitato al fermo e al successivo interrogatorio di alcuni individui sospettati di essere gli assassini di Pietro Manunta e di Luigi Senisi. In altre parole, il commissario Pattarozzi avrebbe fatto soltanto il suo dovere espletando delle normali indagini di polizia che portarono all'identificazione degli autori degli omicidi attraverso la piena confessione di alcuni di loro ottenuta tra l'altro, senza ricorrere a maltrattamenti o torture. Alla memoria difensiva venivano allegate le dichiarazioni del vescovo di Amelia, Vincenzo Lojali, e del direttore dell' Istituto Salesiano "San Giovanni", don Roberto Federici, ambedue datate 5 aprile '46, nelle quali si attestava che Gaetano Pattarozzi durante la sua permanenza in Amelia aveva dimostrato di non essere una cattiva persona [...]. Il neo commissario aveva cominciato a svolgere i suoi compiti nel migliore dei modi aiutando, ad esempio, la popolazione di Penna in Teverina in occasione "dello scoppio di Bassano (saltò in aria un treno carico di munizioni, n.d.r.) che tanti danni e disgrazie produsse" e prodigandosi, su richiesta dello stesso vescovo, per salvare la vita a un giovane di Giove, un certo Gillio, condannato a morte dai Tedeschi, che grazie al suo intervento venne risparmiato. Nei confronti degli Alvianesi arrestati dopo l'attentato, il Pattarozzi non si sarebbe abbandonato ad "eccessi", anche se era "fuori di sé" per l'uccisione del suo autista. Quel che fece di "odioso" scrisse il vescovo, "fu costretto a farlo cercando di attenuare per quanto poteva i danni e le ingiurie. Infatti non vi fu nessuna esecuzione capitale e solo pochi giorni di carcere, eccetto per quelli di Alviano" [...]. Anche don Federici cercò di aiutare l'ex commissario, ricordando il benevolo trattamento riservato a un ex prigioniero inglese, un certo John Brandbury. Quest' ultimo era stato tenuto nascosto per tre mesi nel commissariato per non farlo finire nelle mani dei Tedeschi».
A questo punto Marcellini prova a ricostruire le vicende di Pattarozzi successivamente al 25 aprile del '45. Asserendo, però, che i partigiani, avendolo catturato, gli risparmiarono all'ultimo momento la fucilazione perché lo avevano riconosciuto estraneo ad alcuni omicidi commessi dai fascisti di Parma, riferisce cose non esatte.
In realtà, Pattarozzi, che a Parma svolgeva l'incarico di commissario del comune e al contempo rivestiva il grado di capitano della brigata nera locale, catturato una prima volta dai partigiani, fu da questi così selvaggiamente percosso che lo lasciarono a terra ritenendolo ormai morto. Rimesso in sesto da mani pietose, fu nuovamente catturato, ma riuscì a fuggire. Riacciuffatto, fu portato innanzi al plotone di esecuzione, e, a questo punto, lo salvò il provvidenziale intervento di una camionetta americana.
Fatta questa doverosa precisazione, proseguiamo col racconto dello storico umbro: «(Pattarozzi, n.d.r.) era finito fin dall'aprile 1945 nelle mani degli Alleati con i quali collaborava, "alle dirette dipendenze del capitano Anzil della polizia americana" per individuare i responsabili di alcuni crimini di guerra. Ma una volta cessata questa collaborazione con gli Americani, sarebbe stato consegnato agli Inglesi, che avevano intenzione di fucilarlo per aver scritto il saggio distribuito fra le forze armate italiane dal titolo "Inghilterra fogna di passatismo". Pattarozzi riuscì a fuggire prima di essere condannato a morte dagli Inglesi e si nascose in un convento.
Successivamente, assieme a sua moglie, si trasferì in un paesino vicino a Bari e vi rimase circa 5 anni fino a quando tutti i procedimenti penali a suo carico vennero definiti con la concessione dell'amnistia Togliatti. Morì a Cagliari nel 1959 all'età di 45 anni.».