EXCALIBUR 68 - marzo 2012
nello Speciale...

Le torture

Gaetano Pattarozzi con Filippo Marinetti in una foto del 1938
Di seguito Marcellini (dando voce alle testimonianze degli arrestati) descrive le torture fatte infliggere da Pattarozzi nel corso degli interrogatori: «Le tecniche escogitate da questo singolare personaggio per fare parlare gli arrestati furono le più varie e, si deve riconoscere, abbastanza efficaci. Lui, giornalista, poeta futurista amico di Marinetti, e per giunta sposato con una professoressa di lettere, non era certo tipo da usare le mani. Questo compito lo lasciò ai suoi subordinati. Si cominciava con i pugni e con gli schiaffi e poi, se il malcapitato si ostinava a non parlare, si passava alle frustate, vibrate con una fune bagnata e annodata [...]. Evodio Santi per la prima volta riuscì a resistere a quei "tormenti", come li definì, ma quando fu sottoposto alla seconda flagellazione confessò di essere stato lui a uccidere Pietro Manunta. Sante Carletti, dopo essere stato percosso e fustigato, fece i nomi sia degli uccisori di Manunta sia degli attentatori del federale e di Pattarozzi [...]. Ai detenuti non furono soltanto inflitte torture fisiche, ma anche psicologiche. In questo campo il commissario Pattarozzi dimostrò di possedere notevoli doti di fantasia. La sua specialità erano le finte esecuzioni. Ad esempio, durante gli interrogatori che conduceva, impugnando sempre la pistola, ogni tanto lasciava partire un colpo che sfiorava la testa del detenuto [...]. Malgrado i numerosi rastrellamenti, soltanto alcuni della banda dei partigiani di Alviano erano stati arrestati. A questo punto i fascisti ricorsero a una singolare trovata: la cosiddetta "contro banda". Dodici di loro si sarebbero travestiti da partigiani e, dopo essersi recati nella zona di Alviano, avrebbero cercato di carpire informazioni ai contadini [...]. L'insolito piano sembrava ricavato dalla trama di un film di avventure e questo ci induce a pensare che alla sua ideazione non sia rimasto estraneo il commissario Gaetano Pattarozzi. Inoltre, per rendere più credibile il camuffamento, alla moglie del commissario, Caterina Mescolucci, e a sua sorella Maria, moglie del tenente della G.N.R. Rolando Palmieri, fu affidato il compito di cucire sui berretti dei fascisti delle stelle rosse di stoffa a cinque punte simili a quelle dei partigiani comunisti delle brigate garibaldine. Coloro che avrebbero dovuto camuffarsi da partigiani furono scelti tra gli agenti della questura di Terni e tra i militi della G.N.R.».
Pare che l'operazione non abbia avuto successo. Però, da un telegramma del questore di Terni del 5 aprile del '44 risulta che nei primi giorni della sua attività, la contro banda avesse catturato due ufficiali inglesi. Una volta conquistata l'Umbria dagli Alleati, nel settembre del '44 ebbe inizio il procedimento contro Pattarozzi e gli altri fascisti per i fatti raccontati.
Nel corso dell'indagine saltò fuori un ulteriore episodio che vide Pattarozzi come protagonista: «Il 23 novembre 1943, Gaetano Pattarozzi ricevette l'ordine di recarsi a Giove e di procedere al sequestro di tutti i beni (circa 80 casse) che il duca Pietro D'Aquarone aveva fatto trasportare al suo castello [...]. Gaetano Pattarozzi e suo cognato Rolando Palmieri, coadiuvati da un gruppo di agenti, si recarono subito al castello dove incontrarono l'amministratore del duca Giuseppe Monti e il custode Adelmo Armeni ai quali chiesero l'immediata consegna delle casse. Ma i due risposero di non saperne nulla. Allora il giovane commissario con la "pistola in pugno" ingiunse all'Armeni di svelargli dove erano state riposte. A questo punto, dato che il custode continuava a rifiutarsi di parlare, intervenne il Monti, il quale indicò ai fascisti la stanza murata del castello dove si trovavano le casse [...]. Le ottanta casse furono fatte trasportare ad Amelia con un camion con rimorchio e depositate in un magazzino del commissariato».
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