Abbiamo visto le crescenti preoccupazioni dei vertici italiani di fronte alle mire dell'alleata Germania verso l'Adriatico, alla quale Mussolini aveva più volte ripetuto che l'Italia sarebbe stata pronta al conflitto alla fine del 1942.
Nel frattempo, per parare atti ostili, aveva ordinato di completare il "Vallo Alpino del Littorio", immensa opera fortificata lungo l'arco alpino centro-orientale in funzione antitedesca. Le popolazioni della zona lo chiamavano "Vallo Non Mi Fido", facendo il verso alla Linea Sigfrido. Dotata dei più moderni strumenti, fu ripristinata nel dopoguerra in previsione di uno scontro con il Patto di Varsavia.
«
Questi economisti da sei anni mi dicono che siamo sull'orlo della bancarotta, ma come vedete ce la siamo cavata benissimo», esclamava stizzito il duce quando gli sottoponevano le cifre dei conti pubblici.
Purtroppo avevano ragione gli economisti: da più di un decennio lo Stato spendeva cifre immense nelle opere di bonifica, nella sistemazione forestale del territorio e nella realizzazione di quasi novanta cittadine e centri rurali in Italia e nelle colonie, nelle quali ancora si riconosce l'impronta italiana.
Era noto che l'Italia si trovava in una situazione precaria. La guerra d'Etiopia in quasi due anni aveva prosciugato oltre il 65% del prodotto interno lordo. La guerra di Spagna, a sua volta, aveva assorbito risorse finanziare e militari notevoli e nessun trattato era stato previsto per chiedere alla Spagna nazionalista di restituire pegno. La Spagna era costata circa tre quarti dell'introito fiscale di un intero anno e alla conclusione del conflitto erano rimasti agli Spagnoli ingenti materiali bellici. La disoccupazione, infine, nonostante gli sforzi del regime, aveva ripreso a crescere, anche per la contrazione dei traffici commerciali causata dal blocco inglese.
Il Paese, minacciato da Tedeschi e Inglesi, manteneva un'inerzia pericolosa.
Era meglio chiudere, frattanto, l'Adriatico ai Tedeschi e l'occasione era l'Albania, occupata nell'aprile 1939.
Sembrerà strano, ma l'invio delle truppe fu un atto quasi superfluo, e ciò conferma che lo scopo non era una semplice conquista territoriale. Quel Paese era nell'orbita italiana almeno dal 1925 e tutta la sua economia si reggeva su capitali pubblici e privati italiani che investivano in bonifiche, infrastrutture, industrie elettriche e petrolifere.
Oggi, l'Archivio del Sottosegretariato agli Affari Albanesi del Ministero degli Esteri ha reso chiaro il quadro degli investimenti, ammontanti a oltre dieci miliardi di lire nel decennio 1930-1940.
Molti tecnici italiani di diverse imprese vi avevano messo piede prima dell'occupazione, mentre i privati vi trasferivano un fiume di denaro, equivalente a oltre trentadue milioni di franchi albanesi, grazie a finanziamenti statali agevolati per la realizzazione di oltre ottanta grandi opere pubbliche, erogati dalla Banca Nazionale d'Albania, anch'essa a capitale pubblico interamente italiano.
Il complesso delle infrastrutture dal 1939 al 1943 costò alle casse italiane la bellezza di 6 miliardi e 531 milioni di lire, oltre a 4 miliardi e 200 milioni di lire investiti nello stesso periodo per lo sviluppo dell'industria petrolifera a Devoli, il cui greggio era trasportato con oleodotto a Valona, e altri due miliardi per esigenze diverse. Qualcosa come tredici miliardi di euro attuali.
Con l'Anic, l'Albania nel 1940 produsse 140 mila tonnellate di petrolio, raffinato negli impianti di Bari e Livorno. Anche l'industria del carbone cominciò a dare risultati soddisfacenti. Si distinsero diverse industrie in gran parte dell'Iri, tra le quali l'Ammi e la famosissima Acai, che aveva creato le città minerarie di Arsia in Croazia e di Carbonia in Sardegna.
Fu inoltre costituito un "sindacato" di trasporti adriatico-balcanici tra la Fiat, l'Agip, la Bnl e la Puricelli, allo scopo di realizzare una grande arteria autostradale per collegare l'Adriatico, via Albania, fin verso il Danubio e i porti del Mar Nero.
Tale ambizioso progetto, si noti, è stato fatto proprio dall'Unione Europea in occasione della II Conferenza Europea dei Trasporti, tenutasi a Creta nel 1994, per realizzare il Corridoio Pan Europeo Numero 8, che ricalca in gran parte il progetto italiano.
L'Albania diede così un importante contributo di materie prime: nel luglio 1939, grazie alle estrazioni dell'Ammi, furono importati in Italia otto milioni di tonnellate di minerale di ferro e svariate tonnellate di rame
(1). Cifra notevole, solo se si consideri che Francisco Franco, convinto di sdebitarsi per l'aiuto militare italiano con un grande gesto, concesse nel 1937 all'Italia appena centomila tonnellate di ferro.
Con la dichiarazione di guerra, la strategia italiana rimase inizialmente impostata sulla cosiddetta "guerra parallela", eufemismo per dire che la guerra non si faceva "per" la Germania ma per esigenze nazionali.
Messe le mani sull'Albania, si trattava di gestire il conflitto senza far entrare la nazione nell'economia di guerra. Il capo di stato maggiore dell'Esercito, Gen. Pariani, aveva predisposto da tempo i piani per l'invasione dell'Egitto e l'occupazione del Canale di Suez, vena giugulare la cui interruzione avrebbe messo in grave pericolo l'impero britannico.
La Regia Marina, dal suo canto aveva predisposto i piani per le operazioni di appoggio costiero.
Al momento di attuare le operazioni programmate, tutto fu bloccato da Badoglio. È credibile che la volontà del capo di stato maggiore generale fosse imposta senza l'accordo delle massime autorità statali? È più plausibile interpretarlo come un cambio di strategia, evento comune in guerra.
Gli stessi Britannici mutarono più volte la loro strategia: tra giugno e luglio 1940, delineati febbrilmente i piani per l'abbandono immediato del Mediterraneo, di Malta e di Suez, cambiarono opinione davanti all'inerzia italiana. La fanteria italiana non si muoveva e la marina, esperta di cannoneggiamento costiero fin dall'Unità d'Italia, non sparava nemmeno un colpo contro le basi costiere nemiche. In seguito appoggiò malamente le operazioni terrestri in Africa Settentrionale, limitandosi alla scorta minima dei convogli.
Abbandonati i piani che avrebbero risolto la situazione mediterranea, l'Italia sembrò orientata a contenere la pressione nemica in Libia. Dalla Grecia, tuttavia, provenivano nuovi pericoli a causa dell'occupazione britannica delle sue basi navali e aeree. Fu inevitabile intervenire, anche perché i bombardieri inglesi erano ormai in grado di colpire gli impianti petroliferi della Romania, alleata dell'Asse e unica fornitrice di petrolio all'Italia, a causa del ferreo controllo esercitato dal Regno Unito nel Medio Oriente. Ci fu quindi la guerra alla Grecia per "spezzarle le reni", in realtà per spezzarle, almeno nel Mediterraneo, alla Gran Bretagna.
«
Sapete che abbiamo un ottimo cannone da 70 mm? È il migliore che esista. Ma non c'è, per la semplice ragione che è ancora un progetto. Di più, ho scoperto in questi mesi che non abbiamo artiglierie reggimentali. Non lo sapevo!», si lamentava Mussolini con i gerarchi.
Egli ne era però il responsabile principale, essendo il titolare dei tre ministeri militari. Durante la riunione del Consiglio dei Ministri del 29 aprile 1939, il duce affermò, tra la costernazione dei ministri: «
Debbo dire che questa amministrazione dell'esercito non va, non se ne può mai essere sicuri. Le sue cifre non sono mai esatte».
Nel febbraio 1940, nonostante l'urgente bisogno di valuta estera, Mussolini respinse le proposte di Raffaello Riccardi, Ministro degli Scambi e Valute, di vendere alla Gran Bretagna materiale bellico per 20 milioni di sterline, indispensabili per reperire nel mercato internazionale materie prime, poiché le riserve valutarie italiane si erano ridotte ad appena 1.400 milioni di lire.
Le tentazioni, però, erano troppo forti. Erano state cedute grosse quantità di materiali non bellici alla Francia ma, sottobanco, erano stati forniti anche motori per aerei militari per recuperare valuta. Ciò irritò ancor più i Tedeschi, che lanciarono un larvato ammonimento: «
Se con i prigionieri francesi prendessimo anche materiale di guerra italiano, come pensate che reagirebbero i soldati tedeschi?»
(2).
Infine, il duce ruppe gli indugi.
Gli era chiaro di essersi cacciato, col "Patto d'Acciaio", in una trappola, mentre gli Inglesi avevano messo in atto un pesante blocco navale.
Si è discusso molto sull'ipotesi che gli Inglesi avessero chiesto al duce l'intervento per avere al tavolo della pace un elemento di moderazione. Se davvero vi fu tale richiesta, forse non lo sapremo mai.
Si sa invece che il 16 maggio 1940 il Primo Ministro britannico, avvertito dai suoi servizi che l'Italia stava per entrare nel conflitto, consegnò a Mussolini, tramite l'ambasciatore Percy Loraine, un messaggio che Ciano definì di "goodwill" (di buona fortuna) dignitoso e nobile.
Mussolini dichiarò al diplomatico che avrebbe risposto, ma dei messaggi che i due si scambiarono nulla ci è dato sapere. I documenti inglesi desecretati hanno però fatto emergere che gli Inglesi volevano semplicemente l'Italia in guerra per altre mire: rappresentava il nemico militarmente più debole e più esposto ai loro intrighi, grazie alla presenza della lobby fascista e militare filo inglese
(2).
Ci sono prove abbondanti degli intrighi inglesi in Grecia. Già durante la campagna etiopica, il governo guidato dall'anglofilo Gen. Ioannis Metaxas aveva concesso alla Mediterranean Fleet l'uso dei porti e delle basi aeree per minacciare il traffico italiano.
Nel settembre 1936, la Grecia, ormai nell'orbita britannica, aveva accettato un finanziamento di 2 milioni di sterline al tasso decennale di strozzinaggio del 40%, da spendere in Gran Bretagna per la costruzione di due cacciatorpediniere, mentre nel 1937 ai Tedeschi era stato concesso un misero 3% d'interesse decennale per un prestito di 636 mila sterline
(3).
I successivi tentativi di Metaxas di stringere un'alleanza militare con la Gran Bretagna andarono tuttavia a vuoto sia nell'ottobre 1938 sia nel gennaio 1939, forse perché la situazione internazionale si andava complicando e gli Inglesi ancora non volevano correre rischi con l'Italia. Metaxas riuscì, invece, a negoziare un nuovo prestito, a un tasso ancor più usuraio del 43%, per altri due caccia per mettere in condizioni la Grecia di «
interrompere agevolmente il traffico italiano col Mar Nero»
(3).
Questi atteggiamenti spiegano perché nella redazione dei piani d'invasione dell'Albania lo stato maggiore dell'esercito aveva previsto la contemporanea occupazione di Corfù quale primo passo per allontanare la minaccia britannica o per favorire un rovesciamento del regime greco.
Quando la pressione franco-inglese si fece più stringente con la garanzia militare a favore della Grecia e della Turchia, il piano italiano fu semplicemente aggiornato, prevedendo che una divisione di formazione occupasse l'aeroporto ateniese di Tatoi, in base all'esperienza dell'occupazione dell'aeroporto di Tirana realizzata dal 3º Reggimento Granatieri di Sardegna.
I pericoli provenienti dalla Grecia erano noti a tutti i vertici italiani. Pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra italiana, la Royal Navy aveva notificato al governo greco che «
la legge internazionale non impediva alle navi di sua maestà britannica di passare nelle acque territoriali di chicchessia»
(3).
Perciò non si fecero scrupolo di violare la "neutralità" greca, rifornendo le loro unità navali nelle basi elleniche, stazionando i bombardieri negli idroscali del Mar Ionio e dell'Egeo e addirittura installando centri per le trasmissioni radio e via cavo cifrati con militari inglesi camuffati da impiegati civili della britannica "Cable and Wireless".
Gli efficienti servizi italiani, fin dagli Anni Trenta, intercettavano e decrittavano tutti i messaggi trasmessi da Inglesi, Francesi, Polacchi, Russi, Turchi, ecc.
Nei primi giorni di dicembre 1941, un gruppo di carabinieri del Sim del Maggiore Manfredi Talamo si impossessò nell'ambasciata americana di Roma del "Black Code" in uso alle forze Usa, che gli Italo-tedeschi poterono utilizzare fino alla prima battaglia di El Alamein nel luglio 1943, quando il Cap. Alfred Seebhom, della compagnia trasmissioni di Rommel, cadde in mano a un commando inglese che scorrazzava tra le linee dell'Asse.
Seebhom morì poco dopo per le ferite, ma gli Inglesi, frugando tra le carte del suo carro, scoprirono con sgomento che il codice era stato violato dal Sim italiano
(4).
(1) Pubblicazioni degli Archivi di Stato - Strumenti CLXXIII 1939-1945
(2) Galeazzo Ciano - "Diario"
(3) Enrico Cernuschi - "Le reni della Grecia" (su "Storia Militare", ottobre 2011)
(4) Alfio Caruso - "L'onore dell'Italia" (Longanesi, 2011)