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Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati, si son fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo».
Questo è lo sfolgorante
incipit della riedizione di "Morte a credito" (Corbaccio, 2000), il romanzo che, insieme a "Viaggio al termine della notte", è considerato il capolavoro di Louis-Ferdinand August Destouches, conosciuto nel mondo con il nome della sua vecchia nonna, Céline.
"Morte a credito" fu ristampato nel 2000, ripristinato di alcuni brani che il primo editore, Robert Denoel, giudicò troppo scandalosi. Non c'è da stupirsi.
Perché è immensamente scandalosa tutta la prosa di Luis-Ferdinand Céline, per il suo contenuto e la sua forma. Non si può restare passivi davanti alla sua scrittura: per assaporarla bisogna viverla, bisogna seguire le sue cadenze, i suoi sussulti, il suo linguaggio senza regole. Occorre catapultarsi all'interno del suo scrivere, così come Jackson Pollock, nel suo
action painting, si metteva fisicamente in mezzo alle sue tele stese in terra, e, in lui i colori, in Céline le parole, è un continuo gocciolio, borbottio, chiazze di colore e frasi dal ritmo impetuoso, brandelli di parole e tronconi e silenzio.
Prosa scandalosa per la sua anarchia, rivoluzionaria allora e ancora adesso.
Siamo di fronte a uno scrittore, ma soprattutto a un uomo contraddittorio, fuori dagli schemi, agitato da ideali politici discutibili. Ideali professati a modo suo, in maniera paradossalmente autolesionistica.
È bellissima la descrizione che Stenio Solinas dà di Céline: «
Fu anarchico e razzista, reazionario nel suo essere rivoluzionario, modernissimo eppure negatore del progresso, cane sciolto senza padroni, che a forza di abbaiare alla luna si trasformò in lupo, mostrò i denti, azzannò e alla fine da predatore si ritrovò preda, inseguito, braccato, preso e punito [...] ma non per questo, domato».
Ma cos'è che colpisce in Céline, che lo rende così unico nel panorama letterario del Novecento?
Due cose soprattutto: il contenuto delle sue opere e la forma della narrazione.
Il mondo dello scrittore Céline è un mondo di sventurati, affogati in una società piena di degrado morale e sociale ed egli ne parla con uno stile per quei tempi rivoluzionario, con un lessico aspro, dirompente, apocalittico, colmo di miasmi, sulfureo, agghiacciante. La vita dei perdenti e dei derelitti - che egli conosce bene - è descritta con una rabbia velenosa, con un cinismo misto a pietà, allucinazioni e degrado che lo attirano in un pozzo senza fine, dove non arriva né giustizia né pietà e tanto meno redenzione.
Il suo stile di scrittura è per quei tempi assolutamente straordinario, dove passato, presente e futuro si alternano in modo parossistico e i fatti, le osservazioni e le emozioni scorrono avanti e indietro, secondo una logica che non sembra neanche tale.
Un uomo solitario, che accetta di dividere la sua solitudine con l'inseparabile compagna Lucette e con un gatto, Bébert, adottato nel 1944, compagni di miseria e di solitudine.
Al momento dello sbarco degli Alleati si trova davanti al dilemma della fuga o del plotone di esecuzione. Non è un eroe, per fortuna, e quindi fugge prima in Germania e quindi in Danimarca, con la moglie e poi con il suo gatto attraversa un paese sconfitto devastato dalla guerra. E dopo arresti, carcere, confino, liberazione e amnistia, si ritira nella sua ultima casa, dalla quale poteva vedere la sua Parigi, con la moglie e l'inseparabile gatto.
È l'epilogo di uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, la cui opera irriverente e dissacrante ne fa un personaggio del quale ancor oggi si discute, per la costante sovrapposizione tra la sua opera letteraria e le sue scelte ideologiche - parallelo che ha nuociuto alla diffusione dei suoi libri e non ha mai permesso di giudicare serenamente la sua opera.
Il suo linguaggio crudo e desolato rispecchia i tumulti della sua anima dannata e impregna i suoi libri, capolavori come la sua vita assurda. Era un giovane laureando quando nella sua tesi di laurea narrò la storia del dottor Semmelweis, che sosteneva che la semplice disinfezione di mani e indumenti del personale medico avrebbe portato a una drastica riduzione dei decessi. Un'idea banale che provocò nei suoi colleghi contrasti e sbeffeggi, addirittura radiato fino alla follia. Céline racconta questa storia con una ferocia allucinante, quasi presagisse nel futuro del dottor Sommelweis il suo stesso destino.
Questo straordinario e controverso protagonista della storia letteraria del Novecento ha l'innegabile capacità di saper descrivere il trauma lacerante della guerra e la miseria intellettuale della sua epoca, in pagine bellissime e strazianti.
È un fuggire per andare in un altro luogo, magari fino al termine del mondo, della notte, per salvare la propria integrità personale, salvarsi dalla propria notte.
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Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di Ebrei. Io sono un preservatore accanito di Francesi e Ariani, e contemporaneamente, del resto, di Ebrei [...] ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine».
Il "Viaggio al termine della notte" (ma quanto è più efficace il titolo francese: "Voyage au bout de la nuit") è un libro che resterà nella storia della letteratura, per la sua capacità di esprimere le tensioni e l'angoscia, affresco di un'epoca, grido anarchico di rivolta. Un libro che ha scandalizzato, scosso, ma anche nutrito e risvegliato, confortato e avvilito generazioni di lettori. Un romanzo del pessimismo, pieno di sdegno nei confronti della vita, impregnato di stanchezza e senza speranza.
Era il 1961 quando Luis-Ferdinad Céline, rognoso e cencioso, sputava l'ultimo respiro, nella piccola casa di Meudon. Dalla finestra poteva vedere Parigi e a essa mostrare il suo culo bretone e questo poteva bastargli. Quando morì, a piangere per lui c'erano solo la moglie Lucette e il suo inseparabile gatto Bébert. E poi un pappagallo e una schiera di cani, ormai unici compagni di quello che una volta fu acclamato come il più grande scrittore di Francia.
Céline credette fino alla fine di venire sepolto al Père Lachaise, il cimitero dei grandi, nella cappella di famiglia. La moglie, sapendo che i Francesi si sarebbero opposti, lo fece seppellire nel piccolo cimitero di Meudon. Una lapide con il nome, le due date ed - in alto a sinistra - un veliero, simbolo del viaggio e della libertà.