La controversa RU486
Una considerazione piuttosto banale: sull'aborto esistono tante opinioni quanti sono gli angoli visuali da cui si considera il problema.
Per la chiesa cattolica non è solo un mero fatto di moralità, ma attiene alla violazione di una legge naturale e quindi divina. La scienza medica, contrariamente a quello che si pensa, non considera lecito l'aborto. Infatti il giuramento di Ippocrate (V secolo a.C.) così recita: «
... e non darò neppure un farmaco mortale a nessuno per quanto richiesto, né proporrò un tale consiglio, e ugualmente neppure darò a una donna un pessario abortivo...». A meno che l'aborto non sia
condicio sine qua non per salvare la vita della madre. Da un punto di vista ideologico e politico e dei regimi a esso legati, le prassi sono multiformi, e, spesso, nell'ambito della stessa dottrina, contraddittorie. Il regime fascista considerava reato grave l'aborto, non solo per ragioni morali, ma in quanto un attentato alla "salute" della stirpe e un sabotaggio alla politica, ritenuta vitale, dell'incremento demografico. Eppure veniva ritenuto lecito e largamente praticato, a esclusivo giudizio del medico, l'aborto terapeutico. L'interruzione della gravidanza, avveniva in pratica, tutte le volte che il medico riteneva che, a fronte di una determinata patologia, il proseguo della gravidanza ponesse in pericolo la vita della madre. La Germania nazional-socialista ammetteva l'aborto nel solo ambito della sua politica eugenetica e razziale. Normalmente nei regimi liberali, ove i diritti individuali prevalgono sull'interesse collettivo, l'aborto è considerato prassi normale. Eppure negli Stati Uniti, dove al prevalente spirito individualistico si accompagna un forte senso religioso della vita, le pratiche abortive vengono spesso osteggiate con metodi non proprio ortodossi. Vi sono, poi, stati come la Cina comunista, dove l'aborto è imposto per legge col fine di regolamentare l'incremento demografico della popolazione.
Un'ultima considerazione di tipo sociologico. Contrariamente alle aspettative, l'aborto trova maggior diffusione nelle società e nei ceti più ricchi e in fase di stagnazione, in quanto economicamente e socialmente "soddisfatte": caso tipico la società romana del I secolo d.C., al massimo della sua potenza economica e politica.
Ma veniamo alle cose di casa nostra. Sino agli anni settanta, l'aborto (a parte quello terapeutico) costituiva reato non solo per la donna che lo praticava, ma anche per chi la istigava e persino per il medico che non denunciasse di aver assistito una donna che aveva praticato l'aborto clandestino. La legge era rigorosissima. C'è, però, da aggiungere che all'aspetto repressivo si accompagnava una politica di prevenzione e di aiuto per la donna che decideva di portare avanti la gravidanza. Si andava dalla possibilità di non riconoscere il proprio nato, lasciandolo alla tutela delle autorità, al diritto di essere accolte, per le ragazze madri, sin dall'inizio della gravidanza, presso un'apposita istituzione, l'Istituto Provinciale per l'Assistenza all'Infanzia (Ipai), che provvedeva all'assistenza e al mantenimento della madre e del nato, nonché dei bambini orfani e abbandonati, per tutto il tempo necessario. Vi era poi l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia (Onmi), cui, secondo lo statuto, potevano rivolgersi gestanti, madri nubili o vedove, gestanti o madri sposate il cui marito non sia in grado di sostenere economicamente l'allevamento dei figli. Di conseguenza ricevevano l'assistenza i bambini sino ai 5 anni provenienti da famiglie povere, i bambini illegittimi o abbandonati. L'Onmi si avvaleva tra l'altro di strutture diffuse capillarmente sin negli ambiti comunali: consultori pediatrici e materni, case della madre e del fanciullo, e soprattutto un'estesa rete di asili nido. C'è poi da aggiungere che l'Onmi, avvalendosi di figure professionali specializzate, promuoveva anche l'assistenza domiciliare per chi non era in grado di recarsi nelle strutture. È il caso di ricordare che l'Onmi fu soppresso come "ente "inutile" nel 1975, proprio da quelli che oggi sbraitano contro il governo per la carenza di asili nido in Italia.
Ma ecco che, finalmente, proprio a partire dagli anni settanta, la sinistra avanza, anzi straripa. Quella rivoluzionaria spranga, sequestra, ammazza. Quella di potere crea un nuovo ordine giuridico per tutelare e liberare finalmente gli oppressi e gli emarginati, che per la sinistra erano gli obbiettori di coscienza, ai quali andavano evitati i traumi della naia, i drogati ai quali non andava impedito di drogarsi, i malati di mente, che non dovevano più essere considerati pazienti un po' speciali, ma bensì come tutti gli altri, per cui niente ospedali psichiatrici e niente, o quasi, custodia. E,
dulcis in fundo, la donna. Gli anni settanta sono stati gli anni del femminismo: la donna doveva essere liberata da tutto e da tutti, ma soprattutto dalla presunta aggressione maschile. Segno più tangibile di questa aggressione è che l'uomo può mettere incinta la donna. Fatto questo che spesso causa non pochi inconvenienti, genericamente compresi nella formula "gravidanza non desiderata".
Per eliminare questo inconveniente storico, la sinistra partorisce il 22 maggio del 1978 la legge 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza. Per la precedente legislazione, l'aborto lecito scaturiva sempre da uno stato di necessità. Con la nuova legge, almeno per i primi tre mesi di gravidanza, diventa l'unico mezzo per ovviare a una gravidanza non desiderata, riducendosi in pratica a un mezzo anticoncezionale. Recita infatti l'articolo 4 della legge che la donna può abortire per «
serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o in previsione di anomalie e malformazioni del concepito».
Questo articolo, interpretato, tra l'altro, molto estensivamente, fa della legge italiana, una delle più permissive esistenti al mondo. E, sempre in omaggio al più becero femminismo, la legge considera "il frutto del ventre" esclusiva potestà della donna, per cui l'uomo, sia pure corresponsabile di quel frutto, non può, non dico impedire l'aborto, ma neppure esprimere la propria opinione, salvo che, bontà loro, per la moglie, qualora sia malata di mente. Così pure niente possono obbiettare i genitori la cui figlia minorenne decida di abortire. Con questa legge si è andati avanti sino ai nostri giorni glorificandola perché... avrebbe portato a una diminuzione degli aborti. Cosa questa risibile.
In realtà sono di molto diminuite le gravidanze, ma il tasso degli aborti rispetto a queste è invariato: il 20% circa. Quanto poi a far passare l'aborto come un'asettica prestazione sanitaria, c'è il fatto che nella sola Roma il 93% dei ginecologi si dichiara obbiettore di coscienza.
E adesso è pure arrivata la pillola magica: la RU486. La prendi con un sorso d'acqua e via... sino alla prossima gravidanza non desiderata! Spiace, in questo frangente, vedere il Pdl farfugliare e balbettare su ricovero sì, ricovero no, effetti secondari della RUu più o meno gravi, quando anche non ci si appigli alla difesa della 194, o si stigmatizzi la repulsione verso la pillola espressa dai neo-presidenti leghisti delle regioni Veneto e Piemonte. Si dimostra così di non capire che la soluzione del problema non consiste nel rendere difficile la circolazione della RU, bensì nel buttare nel cestino la legge attuale e impostarne una nuova, che tenga conto che anche il nascere è un diritto essenziale degno di maggior tutela, e che l'aborto è un danno individuale e sociale, che certamente puoi anche recepire nell'ordinamento giuridico, ma solo per evitare un danno ancora più grave o per risolvere uno stato di necessità altrimenti irrisolvibile.
E di fronte a un problema così grave, sarebbe ora di incominciare a parlare, oltre che dei diritti, anche dei doveri della donna.