L'eccidio delle foibe
La storia di una delle nostre più orribili tragedie, argomento di tesi dell'autore, con la quale si è laureato in Scienze Politiche col massimo dei voti
di Carlo Pia
Dal settembre-ottobre del 1943 in Istria, e circa due anni più tardi a partire dal maggio del 1945 nell'intera Venezia Giulia, accaddero fatti che secondo alcuni sarebbero addirittura identici a quelli avvenuti sin dal 1991 in Bosnia, Croazia e Serbia e ripetutisi ancora più di recente nel Kosovo.
La tragedia patita dai cittadini italiani delle regioni nord-orientali si verificò non appena si diffuse la notizia dell'armistizio. Allora, infatti, l'apparato statale italiano in pochissimo tempo si sfasciò e si venne a creare un vuoto di potere immediatamente sfruttato dal movimento partigiano sloveno e croato, attivo da tempo nell'entroterra carsico e istriano. Esso non solo proclamò l'annessione della regione Venezia Giulia alla Slovenia e alla Croazia, ma agì prontamente colpendo diverse centinaia di rappresentanti dell'amministrazione italiana: poliziotti, carabinieri, finanzieri, maestri, impiegati comunali e postali, ma anche tanti civili che non avevano alcuna qualifica pubblica, vittime di odi privati, di passioni personali o rei di essere notoriamente Italiani e sostenitori della causa italiana.
Quanto accadde allora fu un vero e proprio massacro che viene denominato "le foibe" per ragioni ben precise. La "foiba", dal latino fovea, fossa, è una fenditura che si apre nel terreno e che raggiunge profondità notevoli. Nelle foibe, furono gettati tanti Italiani, a volte ancora vivi, tutti accusati di essere nemici del popolo. Fu per questo che Rino Alessi scrisse il 7 settembre del 1953 su "Il Giornale di Trieste": «La vendetta slava ha donato al lessico il verbo infoibare, il verbo della carneficina senza giudizio, dell'assassinio collettivo, indiscriminato».
In verità il vocabolo foiba ha finito con l'assumere una valenza più ampia, riassumendo in sé tutti gli orrori e le violenze perpetuate al confine orientale d'Italia nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale. Quando infatti si parla delle vittime di quel drammatico periodo, ci si riferisce a esse come infoibate, coinvolgendo nel medesimo destino quanti effettivamente vennero gettati nelle foibe così come coloro che invece vennero fucilati, sgozzati, gettati in mare con una pietra al collo, fatti morire di stenti o scomparvero nel nulla, senza che si potesse avere alcuna notizia della loro reale fine. La foiba dunque è il simbolo del martirio delle genti giuliane e dalmate.
Dopo quella prima ondata dì violenza, la situazione locale tornò relativamente tranquilla, ma intanto era presente un po' in tutti la paura di cosa sarebbe accaduto al termine della guerra, molti ritenendo ormai impossibile una vittoria della Germania nazista.
Nell'aprile del 1945, quando ormai la disfatta dell'esercito tedesco era imminente, le forze jugoslave iniziarono la corsa verso ovest sino all'Isonzo e, in alcuni punti, al Tagliamento, per occupare quanto più territorio italiano possibile e cercare in questo modo di predeterminare, con il controllo militare dell'area, le trattative di pace e la sistemazione del confine con l'Italia, lasciando ancora in mano al nemico Lubiana e Zagabria, la cui appartenenza statuale nessuno avrebbe messo in discussione.
Nei cosiddetti "quaranta giorni" della liberazione titina dei capoluoghi isontino e adriatico, oltre che nella regione istriana dove l'amministrazione jugoslava rimase anche dopo il 12 giugno del 1945, si ripeté su vasta scala e in misura più capillare e radicale quanto era accaduto in Istria nel settembre-ottobre del 1943. La tecnica, già efficacemente sperimentata tempo prima, aveva come obiettivo l'annientamento fisico e psicologico di qualsiasi opposizione agli obiettivi espansionistici e all'auspicato assetto socialista, abilmente fusi insieme per ottenere il consenso popolare più vasto.
In questa logica si spiegano gli arresti notturni, le colonne di prigionieri fatti sfilare per le vie della città per dare un segnale tangibile all'opinione pubblica di chi detenesse veramente il potere, il silenzio sulla destinazione e la sorte finale delle persone arrestate, lasciando che si diffondessero voci non verificabili che accrescevano il clima di terrore e di insicurezza. Così a Trieste, come a Gorizia e Fiume, furono arrestati esponenti democratici del C.L.N., costretto a rientrare nella clandestinità dalle nuove autorità detentrici del potere locale decise a eliminare un organismo politico concorrenziale risoluto a non deflettere dalla difesa dell'identità italiana della Venezia Giulia. Fra l'altro permettere l'esistenza di un antifascismo italiano non comunista avrebbe minato alla base quell'identificazione fra Italia e fascismo che sorreggeva l'iniziativa delle truppe di Tìto, nonché la concezione del comunismo come unica espressione dell'antifascismo. Furono addirittura oggetto di violenza anche quegli Italiani che non avevano mancato di fornire un consistente aiuto ai partigiani slavi contro il nemico comune tedesco, ma colpevoli di essere avversi alle mire annessionistiche slovene e croate e all'idea che la città di Trieste potesse divenire la settima repubblica della nuova federazione jugoslava.
Ragioni ideologiche, nazionali e sociali, quindi, stanno alla base della tragedia delle foibe, che ebbe nell'esodo il suo epilogo. Gli infoibamenti, gli annegamenti, le deportazioni nel periodo di occupazione partigiana dell'Istria dopo l'annuncio dell'armistizio nei quaranta giorni di dominazione slava a Trieste nel 1945 e nel periodo di amministrazione jugoslava nella Zona B, spinsero infatti la popolazione italiana terrorizzata a cercare salvezza e sopravvivenza nella penisola. Milovan Gilas, stretto collaboratore di Josip Broz Tito, nel corso di una recente intervista, ha dichiarato che nel 1946 fu incaricato di organizzare la propaganda anti-italiana per dimostrare l'appartenenza dell'Istria alla Jugoslavia e aggiunge: «Bisognava indurre gli Italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo, e così fu fatto».
Solo di recente, con la fine della guerra fredda e la caduta dei muro di Berlino, il dramma di quelle terre, un tempo Italiane, è stato rivalutato dalla storiografia contemporaneistica, sicuramente in maniera più obiettiva che nel passato.
È un fatto, questo, non poco importante, in quanto ritengo che il ricordare e il discutere quegli eventi, non può che rappresentare la migliore commemorazione per coloro che allora trovarono una dolorosa morte, ed è allo stesso tempo un atto di comprensione nei confronti di chi per salvare la propria vita e la propria liberà ha lasciato le case, i ricordi, per trovare rifugio nel resto d'Italia.