I risultati delle ultime elezioni politiche italiane sono stati oggetto di analisi secondo numerose chiavi di lettura.
In un mondo ormai impregnato di tecnologia, anche il dibattito politico si svolge soprattutto in televisione oppure online con gli strumenti social, ai quali quotidianamente fanno ricorso quasi tutte le forze politiche e i loro leader.
Non si deve certo scendere in piazza e sventolare una bandiera per dichiarare la propria appartenenza politica.
In questo contesto la lettura dei commenti politici dei risultati elettorali soprattutto sui social è stata per certi versi curiosa.
Uno dei commenti che mi hanno colpito è partito da un esame dello scenario mondiale, dalla pandemia alle immagini di una guerra crudele alle porte di casa, fino alle previsioni apocalittiche di una crisi energetica senza uguali, e ha quindi giustificato la vittoria della coalizione di destra-centro come una fuga da una realtà negativa.
Questa scelta è stata vista come una specie di "predisposizione autoritaria" che colpisce le masse poste di fronte ai grandi problemi.
È fuor di dubbio che le persone sono spesso attratte da idee autoritarie - una specie di pulsione per l'assoluto - ma l'attuale modo di porsi della politica non si nutre più di tolleranza o di rispetto delle opinioni altrui e ogni credo esposto dietro il simbolo elettorale è di per sé una manifestazione di autorità insindacabile.
Se il rivale politico è dipinto come "male assoluto", ne consegue che chi lo osteggia è il "bene" - anch'esso assoluto - da perseguire.
L'uomo, ai nostri giorni, deluso dalle promesse irrealizzate e confuso dalla miriade di messaggi contrastanti che lo bersagliano, cerca di adagiarsi sulla "normalità" e sul "passeggero".
La nostra cultura è caratterizzata dalla provvisorietà, dal relativismo, dalla perdita di valori, da una visione disincantata del mondo che porta alla predilezione del presente.
Incastrati in un ingranaggio prettamente consumistico, non ci poniamo più tante domande sul futuro e da qui nasce la scomparsa della voglia di cercare e di sapere.
In questo contesto si radica un sentimento permanente di insicurezza e di provvisorietà, il futuro è visto talvolta come minaccia: si resta ancorati al presente e lo si vive con un senso di inquietudine.
La complessità dell'esistenza mette a disagio le persone che preferiscono la semplicità: l'emergere delle diversità, di opinioni o di esperienze crea disagio e si cerca un appiglio - in questo caso politico - che ci faccia sentire più sicuri.
Se facciamo memoria degli stili adottati dalle varie forze politiche in campo in queste ultime elezioni, ci rendiamo conto - semplificando al massimo i concetti - che da una parte l'enfasi era posta sul "pericolo" che una vittoria della destra avrebbe comportato per l'Italia (con uno stupro imminente della Costituzione) e dall'altra si parlava di cambiamento e di stabilità da portare in un mondo diventato caotico.
In questo contesto tumultuoso, tra scenari esterni di estrema insicurezza, tra disorientamenti personali e slogan di pericoli imminenti, la scelta non poteva che essere indirizzata verso chi prometteva stabilità e calma.
Un altro elemento importante nel nostro mondo che cambia è dato dalla comunicazione politica. Il predominio delle emittenti televisive e quello dei grandi giornali aveva sempre incanalato la comunicazione e il conseguente dibattito politico su binari ben determinati.
Quando nel 1922 il Regno Unito creò la Bbc, essa doveva raggiungere ogni angolo del paese non solo per "informare, educare, intrattenere", ma anche per unire le persone, non perché avessero un'unica opinione, ma per un unico dialogo che rendesse il confronto, anche politico, il più democratico possibile.
I giornali e le emittenti sono ormai diventati vecchi: la possibilità di un dialogo unitario nazionale, pur con opinioni diverse, nasceva dalla conoscenza di fatti comuni veicolati da questi due grandi mezzi di informazione.
Ora viviamo in un'epoca nella quale sono i fatti a essere diversi.
In una sfera dell'informazione in cui non c'è alcun controllo delle notizie (né alcun obbligo che esse rispondano alla verità), nella quale non esiste più alcuna curiosità politica, culturale o morale, non ci sono più fonti affidabili e le stesse fonti sono praticamente infinite: non esiste più alcun modo per distinguere tra la verità e l'artifizio, e tanto meno rendersi conto di una verità manipolata.
Notizie false, tendenziose, spesso volutamente fuorvianti si propagano come un'inondazione e chi ne viene investito non ha certo né il tempo, né la capacità di verificare i fatti. E neanche la curiosità.
E forse, se anche potesse farlo, non avrebbe importanza: una parte delle persone sommerse da queste notizie non cercherà certo una conferma delle stesse, soprattutto se incontrano il proprio modo di pensare.
Così come si leggono i giornali che rispecchiano le proprie opinioni politiche, allo stesso modo si clicca sulle notizie che si vogliono conoscere.
Siamo bombardati dalle notizie, disorientati e sostanzialmente disinformati: è il paradosso che nasce dalla possibilità di conoscere, praticamente in tempo reale, quel che accade in tutto il mondo.
Il problema di questo tipo di informazione (ma non solo di questo tipo) nasce da come vengono interpretati e presentati i dati e gli avvenimenti: essi risentono di tutti i condizionamenti geopolitici, economici, culturali, morali, finanche religiosi di chi li diffonde.
E nessuno ha la possibilità di verificare alla fonte ciò che viene messo in rete e che ci bombarda.
Tutti i social e i motori di ricerca (Facebook, YouTube, Google, Twitter) usano algoritmi che propongono a chi li usa la propria visione del mondo.
La progettazione di queste piattaforme, che vivono sul numero degli accessi e sul tempo di permanenza nel sito, è fatta prediligendo le forti emozioni, dalla rabbia alla paura: esse cercano di creare dipendenza e di influenzare le persone che vi accedono.
È un meccanismo subdolo che trasforma la rabbia in abitudine e la radicalizzazione delle opinioni diviene così un fatto normale.
È la polarizzazione delle opinioni che si trasferisce facilmente dal virtuale mondo online alla realtà.
Se inserite una parola di ricerca in un qualunque motore, per esempio Google, vi apparirà una prima schermata con una decina di risposte al vostro quesito.
La maggior parte delle persone - una percentuale altissima - non va alle successive schermate ma si ferma sulla prima proposta.
Ma in base a quale algoritmo sono state scelte le risposte della prima schermata? È qui che scatta la manipolazione che fa leva sulla nostra pigrizia e sulla nostra assuefazione. Quelle prime risposte diventano la verità.
E da questa verità creata ad arte nascono le convinzioni delle persone, nascono le certezze.
Secondo l'enciclopedia Treccani il neologismo "post-verità" significa «
un'argomentazione, caratterizzata da un forte appello all'emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati, tende a essere accettata come veritiera, influenzando l'opinione pubblica».
Il fenomeno è talmente diffuso che già nel 2016 l'enciclopedia Oxford English Dictionary proclamò la "post-verità" come parola dell'anno.
In Italia 24 milioni di persone ogni giorno vanno a cercare informazioni su Facebook: il problema è quello già esposto della affidabilità di ciò che trovano. Del resto una volta perduto il senso di responsabilità della notizia essa viene propagata senza verifica, spettacolarizzandola se necessario per renderla più appetibile.
Il dibattito politico veicolato in questo modo assume quindi un orizzonte diverso: non più quello del Parlamento o delle colonne dei giornali o degli studi televisivi o degli incontri con le persone.
Il mondo ora è quello online, immerso in una realtà virtuale nella quale chi scrive e chi legge sono non solo distanti fisicamente ma volutamente. Le questioni che si affrontano sono esposte, discusse, criticate godendo di un anonimato salvifico nel quale nessuno è costretto ad assumersi la responsabilità di ciò che scrive.
Sono siti ideali per l'ironia, il cinismo, il disprezzo, l'insulto. Alcuni innocui, altri no.
Questo non è un richiamo nostalgico a un passato nel quale la realtà era controllata dalla carta e dalla televisione.
Ora viviamo in un mondo pericoloso nel quale la navigazione tra le notizie deve essere guidata dall'intelligenza e dal dubbio, necessari anche con i giornali e la televisione, ma ora indispensabili per non essere catapultati in un mondo falso.
È in questo contesto che, frastornati da mille voci, assaliti da mille pericoli reali e immaginari, impigliati in un mondo complesso, le persone sono andate a votare e si sono rifugiate in una scelta che apparentemente semplifica la loro vita.
Nessuno ama le divisioni: preferisce l'unità e la coerenza e predilige un linguaggio politico che non prospetti apocalissi ma sicurezza.
Un'ultima considerazione.
In Israele si sono concluse le elezioni politiche, ennesima chiamata alle urne in una nazione senza pace, nella quale le contrapposte forze in campo marciano da anni sul piede di parità e dove raggiungere i 60 seggi necessari per avere la maggioranza alla Knesset diventa un traguardo irraggiungibile se non a prezzo di assurdi compromessi.
Le forze in campo erano le solite: Netanyahu e altre forze di destra, Lapid e le rimanenti forze liberali, di sinistra e movimenti arabi.
Netanyahu ha improntato la sua campagna sul solito tema della sicurezza e dell'integrità di Israele andando in giro nei paesini, nei kibbutz, fra i soldati, in campagna e nelle fabbriche.
Lapid ha improntato la sua campagna sui princìpi liberali, sui massimi sistemi, con un senso di superiorità morale nei confronti dell'avversario (era presente anche un movimento "No a Bibi"), marchio dell'élite intellettuale e politica cui appartiene.
Il risultato è stato eclatante perché i 65 seggi vinti dalla coalizione di destra (almeno finora) garantiscono una governabilità sconosciuta negli ultimi anni.
Le pagine dei giornali "liberal" del mondo si sono ammantate di lutto: le previsioni per Israele sono quelle di una svolta autoritaria, xenofoba, illiberale, islamofoba, fascista. Un campionario di future catastrofi che ben conosciamo.
È il solito discorso: improntare le campagne "contro" qualcuno raramente paga.