EXCALIBUR 140 - maggio 2022
in questo numero

"Paese d'ombre" cinquant'anni dopo

Ricordo di Giuseppe Dessì

di Antonello Angioni
<b>Giuseppe Dessì</b> (Cagliari, 7 agosto 1909 - Roma, 6 luglio 1977)
Sopra: Giuseppe Dessì (Cagliari, 7 agosto 1909 - Roma, 6
luglio 1977)
Sotto: l'opera di Dessì, Premio Strega nel 1972
l'opera di Dessì, Premio Strega nel 1972
Nel 1972, esattamente cinquant'anni fa, Giuseppe Dessì con "Paese d'ombre" vinceva il Premio Strega: un premio istituito a Roma nel 1947 dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore "Strega", il cui nome si ricollega alle antiche storie sulla stregoneria a Benevento.
Si tratta di un Premio assai prestigioso: alcune opere premiate rappresentano vere e proprie colonne portanti della letteratura contemporanea: da "Il nome della rosa" di Umberto Eco a "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tanto per citarne alcune. Tra i vincitori del Premio troviamo Cesare Pavese, Corrado Alvaro, Alberto Moravia, Mario Soldati, Ennio Flaiano, Primo Levi, Giovanni Comisso, Giorgio Bassani, Elsa Morante, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg e altri scrittori di primissimo piano tra cui, appunto, figura il nostro Dessì.
Per comprendere l'importanza dell'attribuzione del "Premio Strega" a Dessì, non può essere trascurato il fatto che, in quegli anni, si discuteva sul fatto se il romanzo avesse ancora una sua ragione di esistere. Si diceva: «il romanzo è morto». In tale contesto, Dessì va controcorrente e si impone vincendo il Premio Strega proprio con un romanzo.
Ora, non vi è dubbio che "Paese d'ombre" costituisca il capolavoro di Giuseppe Dessì, che, attraverso il romanzo, racconta come in un affresco (non dimentichiamo che Dessì ha espresso la sua creatività anche con la pittura) le vicende di un luogo, Villacidro e, al tempo stesso, di un'intera regione, partendo dalle complesse relazioni tra le persone. "Paese d'ombre" è la storia corale di una comunità attraverso la storia della vita di un uomo: Angelo Uras.
È lui il principale protagonista del romanzo (che poi è il nonno materno di Giuseppe Dessì), la cui vicenda si sviluppa durante il mezzo secolo che va all'incirca dal 1870 al 1920 e durante il quale si costruisce l'Italia: si unificano normative, culture e modi di pensare, si creano le strutture amministrative e la burocrazia, si formano le nuove classi dirigenti sino a delinearsi uno Stato coeso, sia pure ancora debole e carico di limiti e contraddizioni. E, nella cornice dell'Unità d'Italia, si delinea anche il lento sviluppo della Sardegna che Dessì rappresenta nel romanzo.
Si è scritto che Paese d'ombre è il romanzo conclusivo della carriera artistica di Dessì, nel senso che in tale opera si condensa la sua produzione culturale sviluppata in 40 anni di lavoro. E ciò è sicuramente vero. Emerge il profilo di un narratore di grande talento e di respiro europeo che si è alimentato attraverso letture storiche, filosofiche e poetiche: in lui troviamo Leibniz e Spinoza, Proust e Flaubert, ma anche Cechov, Tolstoj e Mann, come pure Nievo, Verga, Pavese, Svevo e Ungaretti. Si tratta di autori che hanno dato un contributo decisivo alla formazione del pensiero ideologico ed estetico di Dessì.
In Paese d'ombre è evidente la forte tensione "ambientalista" (come si direbbe oggi) presente in Dessì che, attraverso i suoi personaggi, denuncia ad esempio il taglio radicale degli alberi per farne legname da bruciare: operazione che individua quale causa della desertificazione del territorio e delle frane che interessano il territorio. È il giovane Uras a condurre una lotta ferma contro la distruzione dei boschi: lotta che vince dopo che una inondazione rende palese la gravità della situazione.
Uno dei maggiori pregi di Paese d'ombre, a mio avviso, è dato dal rapporto che si instaura tra il narratore e l'oggetto della narrazione. Qui il narratore non si sovrappone mai ai personaggi, non li sovrasta, «limitandosi a portare a maturazione linguistica il materiale che essi gli offrono», come ha scritto con grande efficacia espressiva Sandro Maxia, di recente scomparso e al quale deve andare il nostro ricordo. Forse è anche per questa ragione che il romanzo ha un respiro epico.
Un romanzo anche di taglio antropologico. Per Dessì, infatti, la Sardegna, e Villacidro in particolare, rappresenta il microcosmo dove può studiare - appunto come al microscopio - le cose che avvengono su scala maggiore nel resto d'Italia e nel mondo. Parte dunque dalla realtà della sua terra, dalla sua storia, da quella della sua gente, dai problemi e dalle incertezze che assillano la Sardegna, dai tormenti e dalle dolorose sconfitte.
Col passare degli anni, in Dessì si fa strada un senso di pessimismo: questa non è una mia interpretazione. È lui che lo afferma in un'intervista rilasciata nel 1974, laddove dice: «Abbiamo perduto il senso della comunità tra gli uomini, quindi del lavoro, della lotta, della solidarietà e della giustizia. La speranza è oscurata. È arrivata la paura dell'ignoto, del nulla».
Peraltro è un pessimismo contraddittorio perché, in quello stesso anno, Dessì si iscriveva al Pci di Berlinguer che, all'epoca, nel contesto dell'Italia degli scandali e del malgoverno, quale che sia la valutazione in termini politici di tali temperie, rappresentava nell'immaginario il partito della speranza, della rinascita morale, del cambiamento, dell'ottimismo della volontà (che si contrappone, con forza, al pessimismo della ragione). Non vi era dunque alcuna rassegnazione.
Infine, a mio avviso, è assai importante anche il ruolo - sempre di primo piano - che nella narrativa di Dessì occupano i personaggi femminili, che rappresentano il cardine della società sarda. In questa Isola-Continente, in effetti la donna ha sempre rivestito un ruolo di primo piano, di mere 'e domu, che detta regole, modi di vivere, costumi: una cultura quasi scomparsa, di cui resta solo l'ombra.
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