EXCALIBUR 122 - dicembre 2020
in questo numero

L'America e l'eredità di Trump

Quel che resta dei quattro anni più controversi di sempre

di Angelo Marongiu
<b>Donald Trump</b> e <b>Joe Biden</b>
Donald Trump e Joe Biden
Joe Biden il prossimo 21 gennaio diventerà il 46º presidente degli Stati Uniti d'America. Quando ancora non c'era certezza della sua elezione, ma i primi risultati lo davano in testa e ancora non era partita la campagna di contestazione del risultato da parte di Donald Trump, tutta la platea dei sinistri di ogni genere plaudiva per il futuro radioso che attendeva gli Stati Uniti. Si è arrivati a punte di orgasmo tipo quella di Gentiloni, che, in mancanza d'altri, abbracciava sé stesso.
Sono certo che più che la vittoria di Biden - perfetto semisconosciuto - i sinistri plaudivano alla sconfitta di Trump, una figura venuta fuori da un mondo che non era della politica e quindi un intruso, un personaggio non controllabile, del quale non si conosceva la disponibilità al compromesso. Vuoi mettere a paragone di uno che è in politica da quasi cinquant'anni?
E allora ecco lì a precipitarsi a fargli gli auguri e le congratulazioni, presidenti e papi. E, se pur con qualche imbarazzo, anche il nostro Giuseppi (che in segreto si era speso per Trump), con la speranza che il nuovo Presidente degli Usa possa almeno chiamarlo Giuseppo (per distinguersi dal suo predecessore, ovviamente).
È paradossale che chi ha appoggiato con tutto il cuore l'elezione di Biden non si sia guardato intorno e non abbia considerato in che compagnia si trovava. Passi per quasi tutta l'Europa, memore degli schiaffi ricevuti da Trump, ma essere in compagnia di Hamas, Iran e Cina avrebbe dovuto dar da pensare. Anche questo è un segnale che si appoggiava Biden solo per andare contro Trump, accusato di scarsa diplomazia e di eccessiva sincerità nel dire ciò che tanti, non solo negli Usa, pensavano.
Biden, secondo Barak Obama, è stato «il miglior vicepresidente che l'America abbia mai avuto» e, stante la sua personalità e quella della designata vicepresidente Kamala Harris, continuerà a essere un ottimo vicepresidente.
Biden comunque dovrà guidare un'America divisa, spaccata come non mai in due fazioni contrapposte, divisa a livello istituzionale e sociale, in preda a una devastante pandemia da coronavirus e con un'economia dalle incerte prospettive.
Donald Trump, pur nella sconfitta ormai accettata, ha ricevuto quasi 74 milioni di voti (contro i quasi 80 milioni di Biden), e ha ancora in mano il Senato e la Corte Suprema.
Biden non avrà vita facile e infatti è già pronta la definizione di "lame duck president", l'anatra zoppa nella gestione del potere interno. Biden si rivolgerà soprattutto all'esterno, con il suo impegno a far rientrare gli Usa in quella pletora di organismi inutili (accordi di Parigi sul clima, Organizzazione Mondiale della Sanità, Unesco, pace con la Nato), tutti felici di riaccogliere il figliol prodigo non fosse altro per i dollari che gli Usa elargiscono.
Uno sguardo il più possibile sereno sui quattro anni di presidenza Trump portano ad alcune semplici considerazioni, al di là delle urla della campagna elettorale e della faziosità (da entrambe le parti) che l'ha contraddistinta.
Sul fronte interno la democrazia americana non è stata certo distrutta. Il collaudato sistema di "check and balance" non è stato alterato e la tanto esecrata (da sinistra) nomina di tre giudici della Corte Suprema, il massimo organo giudiziario del paese, rientrava in pieno nelle prerogative presidenziali e Trump le ha utilizzate, come è sempre avvenuto anche nelle presidenze democratiche.
In economia le cose sono andate abbastanza bene, se non addirittura ottimamente, fino allo scoppio della pandemia. La creazione di milioni di posti di lavoro e la riduzione delle tasse (in misura forse eccessiva per i ricchi) hanno portato il paese a livelli di crescita insperati.
È indubbio che la gestione della pandemia da coronavirus sia stata disastrosa e condotta in maniera pessima dal punto di vista mediatico. Le esternazioni tipicamente umorali di Trump, i suoi tentennamenti e i suoi atteggiamenti a volte istrionici hanno mostrato indecisione nella gestione e soprattutto nella comunicazione al paese.
La notizia dell'arrivo del vaccino - stranamente annunciato non appena eletto Biden - dovrebbe da questo punto di vista facilitare la gestione della pandemia da parte del neo presidente.
Il resto della politica di Trump sul fronte interno è stata caratterizzata dalla classica visione repubblicana: contrasto delle politiche pro aborto, appoggio deciso sul fronte della sicurezza e dell'ordine pubblico (anche in questo caso artatamente strumentalizzato, dimenticando che gli eccessi della polizia degli stati che hanno portato alla nefanda uccisione di giovani neri sono responsabilità diretta dei Governatori di quegli stati e non certo del Presidente degli Stati Uniti).
In conclusione, sono stati quattro anni di gestione interna paragonabili a tanti altri mandati presidenziali di impronta repubblicana, che, senza il flagello pandemico, probabilmente avrebbero portato alla rielezione di Trump.
Per quanto riguarda invece la politica estera, Trump si è mosso nell'ottica tradizionale di un partito conservatore.
Nessun nuovo intervento militare all'estero (questo, è bene ricordarlo, è invece una squisita caratteristica dei democratici, da Kennedy in avanti). Trump si è distinto per un marcato appoggio a favore di Israele (e i frutti si sono visti con l'isolamento di Hamas e gli storici accordi di pace di alcuni paesi arabi con Israele, non ultimi i recenti incontri con l'Arabia Saudita); inoltre una contrapposizione economica fortissima con la Cina, accordi con l'Arabia Saudita in termini di nuovi armamenti, con il fine di indebolire la devastante e debordante ingerenza sciita dell'Iran, del quale ha denunciato il ridicolo accordo sul nucleare, fiore all'occhiello di Obama.
Altro punto che ha indispettito non poco il mondo liberal è stata la denuncia di trattati internazionali (accordi di Parigi, Oms). E poi il fermo ricordo agli alleati europei sul fatto che l'apparato di difesa della Nato non deve essere a carico solo dei contribuenti americani, ma che anche l'Europa deve pagare di tasca propria così come previsto dal trattato stesso (punto mai rispettato dagli stati partner che hanno schiamazzato contro di lui).
Queste decisioni potranno essere state giuste o sbagliate, solo il futuro potrà dirlo. Ma è indubbio che la presidenza di Biden non potrà discostarsi di tanto da questa traccia. Sicuramente ci saranno tanti sorrisi in più e tante strette di mano e magari qualche bacetto con la Greta di turno. Ma al di là di un cambiamento di facciata, necessario certamente per far dimenticare gli atteggiamenti eccessivi e a volte cialtroneschi di Trump, la realtà futura camminerà sullo stesso binario.
L'America usciva da una crisi economica di portata epocale e da un ipertrofico impegno militare in tutto il mondo e i quattro anni repubblicani hanno ridimensionato in modo considerevole questi problemi.
Trump lascia comunque gli Stati Uniti profondamente divisi al suo interno - e qui la responsabilità andrebbe divisa tra la sua gestione della comunicazione mai inclusiva e l'ostilità preconcetta di tutto il mondo mediatico da lui sempre osteggiato - e il compito di Biden sarà quello di ricucire questo strappo e ridimensionare l'attuale polarizzazione, ma la sua presidenza non potrà che svolgersi sulla stessa linea delineata da Trump.
È una direzione forse obbligata, con più garbo e meno fanfaronate, ma gli Stati Uniti paga-tutto e gendarmi del mondo forse sono scomparsi per sempre.
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