Excalibur blu
SPECIALE
La Resistenza: storia di un mito incapacitante

Il 25 aprile segno di contraddizione e divisione persino fra i propri adepti

La Boldrini che, a ridosso del 25 aprile, insieme a un gruppo di partigiani intona "Bella ciao" in quella Camera che di lì a pochi giorni vedrà la discussione e l'approvazione della legge elettorale "Italicum" unanimemente considerata, per i fini che si propone, simile alla fascistissima legge Acerbo del 1923 che permise a Mussolini di riportare una vittoria schiacciante alle elezioni politiche del 1924, suscita solo ilarità, ma è il segno evidente che il mito della Resistenza come pedagogia e religione civile dell'Italia repubblicana mostra segni di contraddizione insolubili: non è infatti possibile parlare del Presidente del Consiglio della "repubblica antifascista nata dalla Resistenza", Renzi, come di un "caudillo" che mette a rischio la democrazia italiana e al contempo considerare gli oppositori della minoranza Ds novelli partigiani.
Come del resto è surreale respingere dalle già grigie commemorazioni del 25 aprile gli ex combattenti ebrei per far posto a quelle bandiere palestinesi che il gran Mufti di Gerusalemme schierò, negli anni della guerra, a fianco ad Hitler e Mussolini.
Che la Resistenza sia un mito non ci scandalizza più di tanto: tutta la storia d'Italia, a partire dalla fondazione di Roma in poi, è stata elevata a mito con lo scopo evidente di proporre al popolo italiano, di recente e incerta formazione, modelli di riferimento e di pedagogia che in qualche modo ne rafforzino la coesione e l'unità.
E neppure vale l'obiezione della discrepanza che intercorre tra la narrazione del mito e l'effettivo svolgersi degli avvenimenti storici che l'hanno determinato.
Il mito vale non come verità oggettiva ma in quanto riesce a farsi accettare come principio fondante di una nuova realtà politica o storica. Invero il mito principe "Italia: una repubblica antifascista nata dalla Resistenza", creato nel 1946 non si sa bene da chi (si vocifera pure di una frase d'impronta neofascista), poggiava su una base storica inoppugnabile: una parte della popolazione, dopo l'8 settembre del 1943, insorse in armi contro lo stato della Rsi e il suo alleato tedesco. Creò una propria forza combattente (Cvl: Corpo Volontari della Libertà), ebbe un proprio governo (Clnai: Comitato di Liberazione Alta Italia) e indubbiamente esercitò una qualche influenza su parte del territorio nazionale.
Insomma non è del tutto peregrino configurare la Resistenza, secondo i princìpi del diritto internazionale, come un vero e proprio Stato italiano, anche se solo di fatto, alla stessa stregua del Regno del Sud e della Rsi.
Ed è singolare, ma non strano, come la sterminata storiografia resistenziale non prenda minimamente in conto una tale ipotesi, che pure darebbe alla Resistenza la dignità di soggetto autonomo e attivo della storia con la "S" maiuscola.
È ovvio che la Resistenza non fu uno stato riconosciuto dalla Rsi e dai Tedeschi, ma è altrettanto certo che gli Alleati la considerarono come uno stato autonomo e sovrano, ponendosi però il problema di ricondurla (riuscendovi) sotto il proprio dominio politico e militare. A tal fine, l'8 dicembre del 1944, proprio quando la Resistenza greca, nella sua componente comunista, impugnava le armi contro il governo imposto dai "liberatori" britannici e quella Iugoslava si guardava bene dal far mettere piede agli Alleati sul proprio territorio, a Roma, una delegazione del Clnai, composta da Alfredo Pizzoni, Edgardo Sogno, Ferruccio Parri e Giancarlo Pajetta, firma con il comandante supremo degli Anglo-americani nell'area del Mediterraneo, generale Maitland Wilson, i cosiddetti "protocolli di Roma", il cui contenuto è praticamente inspiegabile se non si dice che prima della firma gli Alleati chiesero e ottennero che i capi del Clnai sottoscrivessero il cosiddetto armistizio lungo, ovvero la resa incondizionata dell'Italia agli Alleati.