EXCALIBUR 79 - maggio 2014
in questo numero

27.04.2014: due papi sull'altare, due papi sugli altari

Modeste riflessioni di un osservatore sconcertato e confuso

di Angelo Marongiu
Sopra: 150 cardinali, 1.000 vescovi e 6.000 sacerdoti
Sotto: "Guai a voi, quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Luca: 6,26: il discorso della montagna)
Cerimonia solenne ma sobria: erano presenti 150 cardinali, 1.000 vescovi e 6.000 sacerdoti. La comunione è stata distribuita da 600 preti nella piazza e altri 200 in Via della Conciliazione. Secondo le stime ufficiali i fedeli erano tra 800.000 ed 1 milione, con 700 pullman solo dalla Polonia, 50 aerei charter, 4 milioni di bottigliette d'acqua e 980 bagni chimici, 10 maxischermi, oltre 93 stati rappresentati ufficialmente (capi di Stato e primi ministri vari). 40 telecamere (una delle quali installata sulla croce che sovrasta la cupola - i droni per altre riprese dall'alto non li hanno permessi) e 10 regie mobili per raggiungere i circa 2 miliardi di spettatori sparsi in tutto il pianeta. Un costo di 5 milioni di euro da parte del Comune di Roma (qualcuno parla di oltre 10 milioni) e 500 mila euro dagli sponsor.
Record di cifre e di organizzazione.
Un osservatore come me, lontano e curioso, si chiede dove stava di casa la "sobrietà" quell'ultima domenica di aprile: forse due santi insieme invece di uno solo? E l'umiltà della Chiesa, rappresentata dal nome del più umile dei Santi, Francesco, dov'era? Non lo so, forse la mia chiave di lettura è un po' pretestuosa, ma non riesco a vedere il collegamento tra quell'avvenimento, lo spettacolo a esso collegato e l'arida terra della Galilea attraversata dai calzari del Cristo.
Cos'era quest'immenso apparato scenico messo in piedi in Piazza San Pietro? Una manifestazione della potenza della Chiesa e della sua gloria? Certo, per i devoti che recitano il rosario ci sono i misteri "dolorosi", i "gaudiosi", i "luminosi" e quelli "gloriosi". Ma la gloria della Chiesa deve vedersi non solo in queste mastodontiche celebrazioni, ma anche nella vita di tutti i giorni e le scarpe di raso rosso indossate dal precedente Papa erano un segnale di quella gloria, simbolo della gloria di una figura che - gloriosamente, per chi crede - è il successore di Pietro, vicario di Cristo. Abolirle, come ha fatto Papa Francesco, è spegnere un simbolo di gloria e la vita degli uomini è piena di simboli.
Non posso nascondere di essere prevenuto. I "buongiorno" e "buonasera" o i "buon pranzo" pronunciati da Bergoglio non mi hanno incantato. Resto ancora incantato dal coraggio di Benedetto XVI che a Ratisbona - mirabile discorso! - ha elevato a faro dell'intelletto la coniugazione di fede e ragione, erigendo un muro invalicabile di differenze tra la religione cristiana e quella islamica, uscendo dall'equivoco dell'ecumenismo a ogni costo e di un unico Dio per tutte le religioni. Questo è il coraggio dell'intelligenza.
Ma io sono prevenuto.
Ho appena terminato la lettura del libro di Giuliano Ferrara e Alessandro Gnocchi & Mario Palmaro, "Questo Papa piace troppo" e, citando Ferrara, «i libri ti montano la testa e generano idee perverse».
È un libro discusso e forse anche discutibile, messo in piedi da un "ateo devoto" e da due cattolici tradizionalisti, uno dei quali Palmaro, morto il giorno prima dell'uscita del volume. Un libro che è una specie di canto dissonante nell'unanime coro di consensi che giornalmente Papa Francesco raccoglie.
Libro impietoso, mitigato comunque dalla religiosità evidente e perennemente mostrata dai due autori, qualche volta con troppo compiacimento. Le parole e i gesti di Bergoglio sona analizzati e criticati e ne traspare uno sconcertante campionario di relativismo morale e religioso, con una povertà troppo spesso ostentata e per nulla francescana, con affermazioni spesso in contrasto veemente con il magistero dei precedenti Pontefici. Nel mare di lodi che assediano le parole e i gesti di Bergoglio, questo libro va decisamente controcorrente e non si fa incantare dalla perfetta messa in scena di un papa "nuovo" venuto dalla "fine del mondo".
Una delle accuse rivolte a Papa Francesco è quella di essere un leader che dice alla folla ciò che la folla vuole sentirsi dire e questo è fatto con grande talento e grande mestiere. Le origini gesuitiche non si smentiscono: la formazione religiosa di Bergoglio è evidente. Egli è un figlio spirituale del Cinquecento e della contrapposizione tra Riforma e Controriforma e fa parte dell'esercito di Dio di Sant'Ignazio da Loyola. Del resto la santificazione di Pietro Favre, il 3 gennaio 2014 fatta da Papa Francesco, è un riconoscimento al sacerdote che, primo dei membri della Compagnia di Gesù, affrontò pesanti incombenze in diverse parti dell'Europa, attraversata dai venti scismatici della predicazione di Lutero e che morì a Roma, mentre partiva per il Concilio di Trento.
L'omelia pronunciata per la canonizzazione del nuovo santo nella Chiesa del Gesù espone tutti i caratteri del relativismo cristiano nella massima espressività del Cinquecento, attraversato dalle lacerazioni della Riforma e imperniato sulle distinzioni tra ragione e dottrina e nel discrimine tra il bene e il male.
Papa Francesco conosce bene - e non può essere altrimenti - questa distinzione. Nell'intervista "concessa" a Eugenio Scalfari, a una domanda di quest'ultimo circa l'autonomia della coscienza, il Papa rispose: «Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce».
Giovanni Paolo II, nella Lettera Enciclica "Veritas Splendor" del 6 agosto 1993, al punto 32, scriveva: «In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti a esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori [...]. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male [...]. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di "accordo con se stessi", tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale».
Come conciliare Bergoglio 2013 e il Wojtyla di 20 anni prima? Io sono confuso. La pretesa autonomia della coscienza non può portare il credente ad avere una sua personale visione del bene e del male. Nella sua semplicità il Vangelo è facile da leggere e forse, per questo motivo, difficile da seguire.
Certo la "libertà" è una bellissima parola e uno splendido concetto. Ma deve valere sempre.
Se nell'Ottocento la Chiesa ha vissuto il conflitto tra potere temporale e potere spirituale, annullato - com'era giusto - il potere temporale, la Chiesa deve avere la libertà di esercitare il suo potere spirituale. Ora invece è chiamata a vivere un conflitto che mina il fondamento della libertà spirituale e della sua autonomia. Il laicismo imperante vuole imporre le sue regole, arrivando addirittura a vagheggiare una nuova Chiesa, piena di principi cosiddetti "democratici": il ruolo delle donne, il celibato dei sacerdoti, la questione omosessuale, il divorzio, ecc..
Ecco, di fronte a questo conflitto la chiesa non può cercare il "dialogo" con il mondo. Può offrire il perdono ai peccatori, ma non può equivocare su quello che è il "peccato" (che vetusta parola, vero? E anche scomoda).
Non si possono smantellare secoli di tradizione - divenuta tale perché fondata su principi intoccabili - per venire incontro al mondo che cambia. La forza del Cristianesimo è sempre stata la sua immutabilità di princìpi, un'Arca di salvezza in un mare in tempesta. Un'Arca di alleanza tra Dio e gli uomini in un mondo in perenne conflitto.
Il "politicamente corretto" che la democrazia di massa sta imponendo nella nostra vita quotidiana si vorrebbe imporlo anche nella Chiesa, per distruggere in tal modo il "barbaro residuo" dei Canoni di Roma.
Di fronte a questo conflitto serve un papa che dica "fermatevi". Serve un papa che non sia «Pastore dello Spirito del Tempo, ma Testimone della Luce dello Spirito Santo» (P. Buttafuoco, il Foglio del 30 aprile scorso).
Mi piaceva Benedetto XVI perché si concedeva poco alla "mondanità" e le sue poche parole erano come rasoiate. D'altronde Papa Ratzinger è stato aggredito dal mondo poiché se lo è fatto nemico nel momento in cui ha proclamato il rigore della ragione e l'intangibilità della norma liturgica.
«Introibo ad Altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam».
Erano le prime parole della messa in latino, quelle che sentivo quando ero ragazzino e che, con molta nostalgia, mi riportano lontano... E il profumo dell'incenso.
Facevano parte di una tradizione di secoli, di un rito celebrato in una lingua universale, uguale in tutto il mondo. La messa in latino fu resa facoltativa dal Concilio Vaticano II, vietata da Paolo VI ("Novu Ordo Missae" del 1969), permessa da Giovanni Paolo II che ne concesse una più diffusa celebrazione previo assenso dei vescovi locali, fino al 2007 quando papa Benedetto XVI, con il "motu proprio Summorun Pontificium" estese il diritto di celebrarla a qualsiasi sacerdote.
La storia della Chiesa attuale si snoda anche attraverso queste contraddizioni e ripensamenti: ma essa non deve cambiare con il mondo che cambia, ma rimanere luce e riferimento perpetui.
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