EXCALIBUR 71 - dicembre 2012
in questo numero

I prigionieri italiani che dissero "no" agli Alleati

"Italia banzai! Nippon banzai!". Le vessazioni, la dignità militare. Più di un milione di mitra Beretta ritrovati dopo l'8 settembre 1943

di Ernesto Curreli
Arrigo Petacco, "Quelli che dissero no"
Arrigo Petacco in questi mesi è decisamente in vena letteraria.
Ha rieditato un bel libro sui prigionieri italiani in mano agli Alleati che dissero "no" all'invito alla collaborazione per rimanere fedeli alla loro condizione di soldati. Ne ha scritto poi un altro su Clara Petacci e Benito, cogliendo il clamore suscitato dall'accesso al "Fondo Petacci", secretato per decenni dallo Stato. Subito dopo è comparso in libreria "L'Armata nel deserto", storia dell'armata italo-tedesca in Africa Settentrionale, con sottotitolo "Il segreto di El Alamein", riferito alla violazione della macchina tedesca Enigma che consentì agli Inglesi la vittoria finale.
Il racconto di Petacco, pur a distanza di tanti anni dagli avvenimenti, riesce a trasmettere i sentimenti dei non collaboratori e ne racconta ampiamente le vicissitudini. Finalmente ne abbiamo un quadro completo.
Altra cosa fu il più noto dei resoconti dei "non", quello scritto durante la prigionia da Roberto Mieville col suo famosissimo "Fascists' Criminal Camp", circoscritto all'ambito americano. Giovanissimo ufficiale carrista dell'"Ariete", fu catturato in Tunisia con la resa della I Armata italiana di Messe. Durante la detenzione scrisse un diario quotidiano, pubblicato nel 1947 appena rientrato in Italia, denso di sentimento e di amor patrio, nel quale descrisse gli assassinii a sangue freddo perpetrati dai carcerieri, spesso ubriachi, e le privazioni patite da lui e dai suoi camerati nel campo di Hereford, in Texas.
Mieville, tra le altre cose, raccontò di quando arrivarono i primi prigionieri della Repubblica Sociale Italiana, reduci dai fronti di Cassino, Anzio, Cisterna. Gli antichi soldati del Nord'Africa si levarono frettolosamente gli indumenti marcati Pw per indossare le vecchie sahariane schierandosi sull'attenti: «Viva la Repubblica», gridarono, mentre i nuovi venuti, fieri nelle loro divise eleganti e attillate della Rsi, risposero subito «Viva l'Italia, fratelli». Poi i nuovi arrivati entrarono nel campo cantando gli inni della giovane repubblica. Quello della Decima provocò in tutti un pianto liberatorio: "Nostri fratelli prigionieri o morti": significava che in Patria non li avevano dimenticati!
Degli oltre 600 mila prigionieri italiani, Petacco traccia invece un quadro ampio, per certi versi persino sconosciuto, esprimendo giudizi severi e nuovi per la storiografia "ufficiale" italiana: «Di questa massa enorme di connazionali che conteneva il fior fiore della gioventù italiana - l'età media era di 23-24 anni - e pagò anche per tutti noi la cambiale della guerra perduta, la storia si è occupata [...] in maniera profondamente differenziata. In altri termini, è stata creata una specie di gerarchia della sofferenza, nella quale sono stati collocati in primo piano, giustamente, i reduci dei gulag sovietici e dei lager tedeschi, mentre quelli che soffrirono una meno dolorosa ma assai più lunga detenzione nei campi di prigionia inglesi e americani finirono per rappresentare nell'immaginario [...] addirittura dei "privilegiati" [...]. Ma questa vulgata ignorava e continua a ignorare l'esistenza di una cospicua minoranza di prigionieri italiani che, vuoi per fedeltà ideologica, vuoi per orgoglio o, più semplicemente, per coerente dignità militare, risposero "no" alle lusinghe, e anche alle minacce, dei loro detentori [...] scegliendo stoicamente di conservare lo status di prigionieri di guerra piuttosto che assumere quello umiliante, ma più comodo, di subalterni "cooperatori" di coloro contro i quali avevano combattuto fino a poco tempo prima».
Quella massa di giovani, oltre che negli Stati Uniti, fu rinchiusa nei campi di Sud Africa, Australia, Egitto, Tunisia, Kenia, India. A tutti fu chiesto di sottoscrivere una dichiarazione infamante: "Io prometto [...] in conseguenza dell'armistizio [...] di lavorare secondo gli ordini e per conto delle Nazioni Unite [...], mi impegno a eseguire tutti gli ordini [...] promulgati dalle Autorità Militari Alleate". Insomma, veniva chiesto di obbedire al nemico e di eseguire ogni suo ordine. Petacco afferma che oltre 320 mila aderirono, mentre l'altra metà rifiutò la collaborazione fino alla fine, insultando di volta in volta quegli ufficiali che cedevano, "promettendo", spinti da speranze di carriera e di rimpatrio.
I genieri italiani non misero molto a ricavare rudimentali radio riceventi coi più disparati materiali e così i "non" poterono seguire le notizie dall'Italia trasmesse dalle radio del Nord Italia. La maggioranza dei "non" era composta da giovani fascisti, altri erano semplicemente uomini che volevano conservare l'orgoglio e l'onore militare: «You are true soldiers», voi siete veri soldati, dicevano gli ufficiali anglosassoni, facendo capire esplicitamente che gli altri, i "collaboratori", non lo erano. Tra essi Giovanni Dello Jacovo, futuro deputato del Pci, Nino De Totto, Roberto Mieville, e Giuseppe Niccolai, futuri deputati del Msi, tantissimi scrittori, giornalisti, artisti, professionisti divenuti famosi, tra i quali Giulio Bedeschi, Giuseppe Berto, Diano Brocchi, Armando Boscolo, Dante Troisi, Gaetano Tumiati, Elios Toschi.
Per 5 mila prigionieri italiani "non-coman" la sorte fu davvero singolare, perché nell'estate del 1944 furono trasferiti nell'isola di Oahu, nei pressi di Honolulu, poco lontano da Pearl Harbor, praticamente in zona di guerra, malgrado la convenzione di Ginevra vietasse di custodire i prigionieri in prossimità dei teatri operativi. Lì, dopo qualche settimana incontrarono i primi prigionieri giapponesi, rinchiusi in un campo di fronte. Ogni sera i Giapponesi si schieravano per cantare l'inno nazionale e poi si chinavano a pregare per l'imperatore Hirohito. Dapprima incuriositi, poi sempre più coinvolti, gli Italiani cominciarono a cantare "Giovinezza", la canzone che li aveva accompagnati fin dall'adolescenza, poi chiudevano la "serata" con l'immancabile "saluto al duce". Così, presa confidenza tra loro, al tramonto i Giapponesi urlavano «Italia Banzai!» e gli Italiani contraccambiavano con il grido di «Nippon Banzai!».
Come gli Italiani, anche i genieri giapponesi non mancavano di inventiva quando si trattava di realizzare riceventi radio. Gli Italiani furono da loro costantemente aggiornati sulla situazione bellica in Italia attraverso il notiziario della Rsi che veniva ripreso regolarmente dalle emittenti giapponesi e quindi captate dai soldati del Sol Levante nelle Hawaii. Lo scrittore racconta poi di incredibili fughe di alcuni prigionieri detenuti in India attraverso la catena dell'Himalaya, che riuscirono a raggiungere l'Italia dopo un viaggio davvero avventuroso.
Quello di Petacco, insomma, ricco di notizie poco note, è davvero un bel libro da leggere.
Sorprende invece una sua affermazione, che riporta anche ne "L'Armata nel deserto - Il segreto di El Alamein". Dopo aver ricordato che dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 i Tedeschi e le neo costituite autorità italiane della Rsi avevano trovato una quantità incredibile di vestiario militare di nuova foggia, afferma che negli arsenali e nelle fabbriche furono rinvenuti più di un milione di mitra Beretta. Non dice dove e come, ma Petacco ha certamente compulsato gli archivi militari centrali e qualcosa in più la deve sapere, visto che uno storico come lui afferma tale circostanza.
Peraltro, non è certo una novità che molti reparti della Repubblica Sociale furono vestiti con divise moderne e armati con mitra Beretta. Si vedono nei filmati e nelle fotografie d'epoca. Si sapeva anche, dalle memorie dei reduci e dalle recenti ricerche storiche compiute da scrittori affidabili, che i magazzini militari erano pieni di generi alimentari e di attrezzature di ogni genere. Ad esempio, quando gli Inglesi sfondarono le linee a El Alamein, si sa che trovarono i depositi libici pieni di ogni ben di Dio, mentre i ragazzi venivano mandati in linea a stomaco vuoto, con le scarpe di pessimo cuoio e col moschetto '91, un buon fucile ma privo di efficacia in una guerra dove valeva la potenza di fuoco dei reparti. Sembra che tale fatto fosse dovuto a un sistema di corruzione generalizzato degli ufficiali della Sussistenza, che vendevano cibo e vestiario alla borsa nera a coloni e Arabi. Per i beni e le armi trovate in Italia, oltre alla corruzione, il fatto è spiegabile con l'inefficienza, l'incapacità logistica e l'incompetenza degli ufficiali superiori, che durante la guerra ne diedero triste prova.
Ma della storia del milione di mitra Beretta, stupisce che finora nessuno ne avesse mai parlato.
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