EXCALIBUR 57 - dicembre 2009
in questo numero

Bilancio statale: stabilità o taglio delle imposte?

In Occidente sta per sorgere un altro tipo di stato sociale?

di Ernesto Curreli
È bene matenere riserve statali in vista di nuove emergenze?
Da settimane in Italia si confrontano due opposti schieramenti, anche trasversali alla maggioranza, tra quanti vogliono una riduzione della pressione fiscale e quanti, invece, vorrebbero lasciare le cose come stanno, garantendo la stabilità dei conti pubblici e aspettando che la crisi si risolva da sola.
È difficile dire chi abbia ragione, perché entrambe le tesi sono condivisibili. I primi pensano che una riduzione delle imposte abbia una ricaduta benefica sul sistema produttivo e occupazionale, i secondi pensano che la crisi durerà ancora per mesi e che sia bene mantenere stabili le risorse statali, in modo che di fronte a una nuova emergenza lo Stato possa assicurare interventi sul sistema bancario e sul welfare (sanità, sussidi alla disoccupazione, istruzione, pensioni). Nel ragionamento di questi ultimi c'è anche la preoccupazione di conservare la fiducia nelle obbligazioni di credito statale e perciò il deficit non può andare oltre un certo limite del prodotto interno lordo.
In questo contesto, Tremonti sta andando per la sua strada, con l'appoggio dichiarato di Berlusconi e di parte della maggioranza. Insieme al capo del governo, aveva garantito agli Italiani che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche con nuovi prelievi fiscali, ma nella realtà sta facendo esattamente l'opposto. È vero che le aliquote d'imposta sono rimaste immutate, ma negli ultimi mesi piovono sulle imprese centinaia di migliaia di accertamenti con le più svariate motivazioni: scostamento dagli infernali studi di settore, riprese di imponibile con l'arbitrario "valore normale" delle transazioni, stabilito a tavolino dai burocrati fiscali con un sistema che l'Unione Europea ha condannato, rettifiche su conteggi di imposta spesso incomprensibili, mentre altre branche dell'amministrazione statale stanno pelando a dovere le imprese che ancora resistono sul mercato, colpendo pesantemente la minima infrazione.
C'è poi l'Irap, imposta tutta italiana voluta dal governo Prodi, che punisce le imprese che hanno dipendenti o che sono finanziariamente indebitate, tassandole pesantemente non sul reddito prodotto, ma, semplicemente, impedendo di portare in deduzione diverse voci di costo. Insomma, la pressione fiscale, sommata al gettito delle sanzioni e degli interessi da strozzinaggio che lo Stato pretende, anche con Berlusconi è ben oltre il livello dichiarato.
Il risultato di questo prelievo forzato per il centrodestra potrebbe essere fatale. Non è detto che il popolo delle partite Iva, componente importante del Paese e forse maggioritaria se si sommano le loro famiglie e i loro dipendenti, voglia continuare a supportare una parte politica che li sta deludendo. Si sperava che venisse posto un freno alla spesa pubblica, che venissero ridotti i dipendenti pubblici (si parla di circa tre milioni e 800 mila individui su una popolazione che non supera i 57 milioni), che si affrontasse l'ingiustizia delle doppie pensioni, che si impedissero i trasferimenti di denaro pubblico a favore di badanti ventenni sposate da ottantenni in procinto di lasciare questo mondo, ma desiderosi di lasciare a noi un debito pensionistico probabilmente ultraquarantennale, di tagliare sprechi e costi incalcolabili per la presenza di caste numerose e fameliche: politici, sindacati, magistratura, alti dirigenti dello Stato e del parastato, giornalisti o editori che pretendono di far pagare ai cittadini l'uscita dei loro giornaletti "nazionali", vallette della tivù e dello spettacolo, registi capaci di produrre film soltanto con il denaro pubblico e tanti altri "assistiti" che viene persino la nausea elencarli.
La gente attendeva una distribuzione delle risorse più equa e una diminuzione delle imposte. Difficilmente le cose cambieranno, perché per il centrodestra sarà arduo riordinare il "sistema Italia" basato sulla prepotenza, sulla corruzione e sull'assistenzialismo dei "raccomandati", con le aristocrazie statali che continuano a sperperare il pubblico denaro. Nel centrodestra ci sono state diverse proteste: Brunetta ha ricordato orgogliosamente la sua maggiore competenza di economista rispetto a Tremonti, che è nient'altro che un avvocato fiscalista, e c'è stato persino Mario Baldassarri, valente economista di area ex An e presidente della Commissione finanze del Senato, che ha criticato la mancata riduzione fiscale e l'incatenamento delle risorse pubbliche, auspicando che almeno in parte vengano immesse nel sistema produttivo.
Lo scontro è destinato a farsi più duro. Molti, e io tra questi, vedono nella "Reaganomics", ossia nella dottrina economica di Reagan degli anni Ottanta il sistema migliore e più rapido per far uscire l'Occidente dalla crisi, più tenace di quanto non si pensasse. In realtà non fu il presidente americano a concepire quella vincente politica economica, ma i suoi consiglieri, primo tra tutti il professor Laffer, economista dell'Università del South California, inventore della famosa "curva a campana" secondo la quale ad aliquote fiscali molto alte (come quelle italiane) si sarebbe contrapposto un disincentivo delle attività economiche, scoraggiate da un prelievo sproporzionato e quindi si sarebbe subito ridotto il gettito fiscale, con un tracollo del bilancio statale. Perciò era opportuno diminuire le imposte per far riprendere l'economia, in modo che anche il gettito fiscale riprendesse a crescere e che, nel giro di due-tre anni avrebbe recuperato, se non il pareggio, almeno una certa stabilità.
La tecnica era talmente semplice che presto divenne oggetto di ironia. Si disse che una delle maggiori qualità della Curva di Laffer era che poteva essere spiegata anche a un membro del Congresso in una mezz'ora e che questi ne poteva parlare ai suoi elettori per sei mesi buoni. Il premio Nobel per l'economia Joseph E. Stiglitz nel suo libro "I ruggenti anni Novanta" definì la curva «una teoria scarabocchiata su un foglio di carta». Eppure la curva funzionò alla grande.
Reagan aveva trovato un'inflazione all'11,83%, la disoccupazione al 7,5%, mentre l'aliquota fiscale viaggiava oltre il 70%. Decise un taglio netto del 25% della pressione fiscale da spalmare in quattro anni e pose mano a uno straordinario programma di riarmo, con immissioni massicce di denaro pubblico nell'economia, ingannando peraltro i Sovietici con il suo famoso "scudo spaziale", un grande bluff che li spinse a tentare di seguirlo nelle spese militari provocando, come sappiamo, l'implosione dell'Urss.
Dal 1982 al 1990 gli Usa conobbero un ininterrotto periodo di crescita economica, il Pil crebbe ogni anno del 3% e l'economia, da manifatturiera, si trasformò in economia di servizi ad alto sviluppo innovativo. Per la prima volta i conservatori repubblicani, da strenui oppositori del disavanzo statale, si fecero promotori della "deregolazione" (all'epoca un camion doveva ottenere un permesso per trasportare merce attraverso i confini di due stati americani e una banca di Chicago, ad esempio, non poteva aprire sportelli in altri stati) e di una politica di sviluppo sostenuta anche col disavanzo e con altri correttivi che fecero degli Usa il motore economico mondiale fin oltre Clinton. Tale politica premiò i repubblicani, tanto che un'intera generazione aderì in massa al loro partito, garantendogli dopo Reagan tre mandati presidenziali.
Oggi l'Italia e l'Europa rischiano di rimanere intrappolate da politiche di segno opposto. Aumenta la tentazione protezionistica contro le merci provenienti da Paesi a economia criminale, ma non se ne farà nulla per i vincoli del Wto e cresce la voglia di mantenere il welfare con l'aumento delle imposte. Ci stiamo cacciando in un vicolo pericoloso. Siamo la sesta potenza economica mondiale ma il Paese ha oggi bisogno di una scossa. Inutile gingillarsi con la migliore qualità dei nostri prodotti, che col tempo dovrebbero avere ragione della concorrenza cinese e indiana. Quei Paesi mirano all'autosufficienza in tutti i campi e già oggi producono acciai e tessili di qualità imbattibile. Dobbiamo invece reinventare alcuni settori (metalmeccanica, cantieristica) e potenziarne altri (agricoltura e zootecnia) ricostruendo un nostro mercato che anche per colpa della Ue abbiamo abbandonato troppo facilmente. Servono poi investimenti cospicui nelle infrastrutture e in innovazione. Abbiamo riserva auree che possono assicurare un prestito Ue o internazionale di oltre 1.000 miliardi di euro, praticamente la somma di un intero bilancio statale italiano.
Ma fino a quando Tremonti continuerà a stringere i cordoni della borsa, vietando l'immissione di denaro o l'utilizzazione dei lingotti d'oro a garanzia di prestiti che possiamo agilmente affrontare, sarà difficile che si materializzino investimenti e ripresa.
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