Vae victis
La vicenda, in una guerra normale, sarebbe terminata a questo punto, con la liberazione dei prigionieri di guerra a conflitto ormai definitivamente concluso. Non così avvenne per i combattenti della Repubblica Sociale, nei confronti di molti dei quali dovevano compiersi le vendette di quanti, pur sconfitti sul campo, avevano acquisito la qualifica di vincitori solo in virtù dell'intervento risolutore delle armate angloamericane.
È difficile comprendere per chi non c'era, ma è altrettanto difficile dimenticare da parte di chi c'era e ne ha subito sulla propria pelle le conseguenze, che il proclama lanciato all'atto dell'insurrezione stabiliva che tutti coloro che avevano ricoperto incarichi di rilievo, alcuni dei quali scrupolosamente elencati, ma a cui si aggiungevano «tutti coloro che hanno portato le armi a favore dello straniero», fossero automaticamente condannati a morte e che fosse sufficiente «l'accertamento dell'identità fisica per ordinarne l'esecuzione capitale, che dovrà avere immediata esecuzione senza diritto a inoltrare domanda di grazia» (dal libro "Un popolo alla macchia" di Luigi Longo, pag. 426), concetto più volte ribadito nei fogli di disposizioni elaborati nel corso di quelle giornate.
Per esempio, il dispaccio n. 2089 del 27 aprile, diretto al Comando Piazza di Torino e firmato di proprio pugno dal Generale Trabucchi (un generale dell'esercito italiano!), raccomandava di riservare «trattamento di prigionieri di guerra ai Tedeschi catturati», mentre «tutto il personale - italiano - ivi - nelle caserme torinesi - asserragliato deve essere sterminato».
E col decreto legislativo (sic!) n. 5 del 29 aprile 1945, l'autonominatasi "Giunta regionale di Governo per il Piemonte", allo scopo di dare "forma solenne" all'esecuzione di alcuni degli esponenti di spicco della R.S.I. (come abbiamo già visto, in quanto tali automaticamente condannati a morte) decretava che, in deroga alle vigenti disposizioni, «l'esecuzione di Giuseppe Solaro - federale di Torino - e di Giovanni Cabras - Comandante provinciale della G.N.R. -, condannati a morte da tribunali di guerra, avverrà mediante capestro».
Sentenza eseguita con un macabro rituale, col federale Solaro malauguratamente caduto nelle loro mani e un non mai identificato «fascista o presunto tale», indicato al popolo come Cabras, impiccati a un albero di Corso Vinzaglio e poi esposti al pubblico ludibrio su un camion che percorreva in lungo e in largo le vie cittadine, a perenne gloria dei resistenti insorti quando la città era già stata evacuata.
In un secondo momento, tuttavia, per il Colonnello Cabras, che, occorre ancora sottolinearlo, in virtù dell'alto incarico ricoperto era stato automaticamente condannato a morte, fu inoltrata richiesta di consegna ai Comandi alleati, ed egli fu quindi prelevato nel luglio successivo dal campo di concentramento di Coltano per essere condotto sotto scorta a Torino, con alloggio alle "Nuove", tristemente noto carcere del capoluogo piemontese.
Giudicato nella primavera del 1946 dalla "Corte d'Assise straordinaria" nel corso di un processo durato quaranta giorni, dovette difendersi da ogni sorta di accuse falsamente create da chi non sapeva darsi pace per essere stato privato di una brillante vittoria insurrezionale per colpa di quel giovane (aveva solo 44 anni) Colonnello Comandante, con un passato di combattente costellato di riconoscimenti e decorazioni al valore.
Una strenua e appassionata difesa e il brillante passato militare lo salvarono dalla richiesta condanna a morte, ma non da quella a trent'anni che gli venne inflitta da quel tribunale appositamente creato per condannare i vinti.
E solo nel '47 la Corte di Cassazione, esaminando in un clima più sereno le risultanze processuali, annullò senza rinvio la sentenza della Corte d'Assise straordinaria, ordinando l'immediata scarcerazione.