L'Europa dopo il voto in Italia
Le "malefatte" del centrosinistra europeo e gli auspici di un futuro più roseo per una Comunità sempre più eterogenea
di Ernesto Curreli
Su quindici Paesi aderenti alla U.E., appena tre, dopo le elezioni italiane, sono governati da formazioni di centrodestra: l'Irlanda, la Spagna e, per l'appunto, l'Italia. Significa che per diversi anni ancora lo scenario europeo sarà dominato da politiche di centrosinistra.
La vittoria di Berlusconi, del resto, avviene in un Paese che in politica conta marginalmente. Chi guida veramente l'Europa è l'asse franco-tedesco, forte economicamente e politicamente. La Francia da tempo è critica verso la N.A.T.O. e, in particolare, ha sempre contestato le iniziative americane nell'area dell'Est e del Medio Oriente. È naturale che abbia raccolto le simpatie di quanti guardano con crescente interesse alla creazione di una forza militare europea slegata dagli U.S.A.. La Germania, dal canto suo, è il Paese europeo economicamente più forte e politicamente pesa in conseguenza. I suoi imprenditori hanno occupato l'area centrorientale europea, più nota come "area del Marco", che anche con l'introduzione dell'euro rimarrà a egemonia tedesca.
I due Paesi dal 1999 hanno deciso di correre insieme, lasciando indietro quanti non riescono a tenere il loro passo. È la cosiddetta Europa "a due velocità", che determina l'agenda europea della politica agraria comune, che fissa il calendario dei nuovi ingressi nella U.E. sia per l'Est sia per il Mediterraneo. Ed è sempre l'asse franco-tedesco che decide quando e come aprire i cordoni della borsa per i sostegni interni (obiettivo 1, dal quale rischia di uscire la Sardegna e qualche altra Regione meridionale italiana) e per i fondi strutturali esterni (accordi di Helsinki, programmi Meda).
Forse vedremo qualche piccola modifica nella rotta europea e forse non assisteremo più alla scandalosa politica delle raccomandazioni della Commissione Europea contro i Paesi non allineati con le sinistre, come è accaduto per l'Irlanda, "sgridata" dagli altri governi di sinistra per la sua politica di sgravi fiscali - che ha dato uno straordinario impulso alla sua economia - proprio mentre l'Inghilterra guidata dalla sinistra di Blair faceva lo stesso senza incorrere in sanzioni.
Sotto la spinta dei tre governi di centrodestra, l'Europa, finalmente, potrebbe iniziare a occuparsi di politica sociale. Il paradosso della U.E., infatti, è che da più di un decennio si muove, sotto la spinta di governi nazionali di centrosinistra, con una politica di puro stile liberista. Le sinistre europee, dopo la caduta del Muro, si sono stranamente convertite alle teorie del libero mercato, della liberalizzazione dei movimenti di capitale, dell'apertura indiscriminata dei mercati. Da tempo, inoltre, con la benevola e interessata attenzione statunitense, hanno quasi smantellato l'apparato del welfare che faceva dell'Europa un qualcosa di originale e di migliore rispetto agli Stati Uniti.
Abbattuti i sistemi socialdemocratici scandinavi che avevano creato una invidiabile rete di assistenza pubblica e attuato la socializzazione delle imprese, che praticamente resiste soltanto in Germania, smantellato con le privatizzazioni il sistema di economia mista che molti Paesi avevano adottato sul modello fascista degli Anni Trenta, l'Europa delle sinistre somiglia sempre più agli Stati Uniti e al suo "american away". Non è forse un caso se in tutte le metropoli europee aumentano i barboni e i disoccupati, né è un caso se sempre più in Europa si impongono le teorie che vogliono una scuola e una sanità private e una rete assistenziale e previdenziale affidata alle compagnie di assicurazione. Come in America, chi non ha lavoro finirà ai margini della società.
Se qualcosa si muoverà, sarà però difficile che la struttura della U.E. si modifichi significativamente. Gli accordi europei, infatti, vengono stipulati con un orizzonte temporale molto più lungo rispetto a quello degli uomini. Basta pensare alla politica agraria comune, che ebbe inizio nel 1953 e che tuttora permane. Gli accordi di partenariato commerciale con i Paesi dell'Europa Centrorientale, del Nord Africa e del Medio Oriente, ad esempio, sono stati stipulati da tempo e avanzeranno inesorabilmente, sia che l'Europa rimanga sotto la guida delle sinistre sia che passi sotto il governo delle destre. Si tratta di transizioni complesse, che mettono in moto all'interno degli Stati partecipanti e reciprocamente tra essi una tale massa di riconversioni politiche ed economiche, impossibili da arrestare.
È fuori discussione, quindi, che l'allargamento avverrà, nell'Est come nel Sud dell'Europa. Semmai, nel lungo termine (10-15 anni) è da mettere in conto una fase di integrazione culturale a completamento di quella economica. Su questo tema davvero si giocherà la partita tra le destre e le sinistre europee. Queste ultime per adesso pensano solo ad allargare i mercati interni e non si curano di cosa accadrà dopo. I vantaggi economici immediati, del resto, sono reciproci: l'economia europea conoscerà un nuovo slancio, quella dei Paesi integrandi conoscerà un processo di modernizzazione, pur tra riconversioni dolorose per la popolazione e, specie per i Paesi islamici, in mezzo a sommovimenti socio-politici. Chiediamo loro, infatti, di adottare d'un colpo l'economia di mercato e il sistema democratico occidentale. I Paesi dell'Est sono più favoriti: la loro dimensione economica si è rapidamente trasformata dalla pianificazione socialista a quella del mercato liberale, mentre la loro matrice culturale non è per nulla diversa dalla nostra.
Diverso è il caso dei Paesi dell'Africa del Nord e del Medio Oriente. Questi, più che costituire "nazioni", sentono di appartenere alla comunità islamica, la cui religione permea la loro esistenza pubblica e privata. Sono più indietro anche nella liberalizzazione economica, per motivi storici più che politici. La tradizionale politica interventista dei loro Stati, che controllano direttamente circa il 50% dell'economia, non deriva tanto dalle esperienze socialiste di Nasser o dei partiti socialisti panarabi, quanto dall'eredità della dominazione ottomana in tutto il bacino del Mediterraneo e dai primi governanti "illuminati" che ne sostituirono il potere. L'ufficiale turco di origine albanese Muhammad Alì, ad esempio, quando si ribellò alla Sublime Porta, nei primi decenni dell'Ottocento creò in Egitto le prime industrie manifatturiere della regione, di piena proprietà statale, e un suo figlio, con la conquista militare, ne esportò il modello in Libano e in Siria.
L'Europa continuerà quasi per inerzia nella sua politica. Vorrà un esercito, che per adesso è in embrione nell'asse franco-tedesco. I suoi primi sostenitori sono proprio gli uomini della sinistra tardomarxista, che non hanno mai dismesso l'odio antiamericano e che vedono nell'esercito d'Europa il braccio che finalmente potrà rimandare a casa quelli che, con la loro politica militarista, con lo scudo stellare e con le flotte e gli eserciti sparsi in tutto il mondo, hanno costretto l'ex U.R.S.S. a una folle rincorsa nelle spese militari, tanto da farla cadere esausta senza aver sparato neanche un colpo di fucile.
La destra europea, allora, dovrà assumere un ruolo di equilibrio e di pace, prima che cozzino i continenti: l'America e i suoi satelliti da una parte, l'Europa dall'altra, mentre da un'altra parte ancora cresce il peso dell'Asia. Dovrà valutare bene se accogliere l'Islam come un amico, aiutandolo a superare il guado verso la modernità e lo sviluppo. E dovrà scegliere se continuare ad avallare le distorsioni del neoliberismo selvaggio, specie in materia di norme I.S.O. o di brevetti industriali, che ad esempio penalizzano l'intervento umanitario in favore delle popolazioni colpite dall'aids e dalle altre malattie endemiche del Terzo Mondo. E dovrà muoversi con cautela nel nuovo mondo che si va formando intorno alle grandi aggregazioni economico-militari delle macroaree.
Sarà forse l'Europa delle destre quella che per prima promuoverà un nuovo ruolo dell'Onu?