EXCALIBUR 24 - febbraio 2001
in questo numero

I soldati sardi e l'uranio impoverito

di Nicolò Manca
Il problema degli effetti dell'uranio impoverito contenuto nei micidiali proiettili anticarro impiegati dagli Americani nella guerra del Golfo, in Bosnia e nel Kosovo, ha interessato la Sardegna per più ragioni. Prima che il caso assumesse una dimensione europea, la stampa sarda fece propria l'ipotesi che il decesso per leucemia di Giuseppe Pintus, un bersagliere che aveva prestato servizio a Capo Teulada nel '94, potesse essere messo in relazione con l'uranio impoverito. A poco sono valse le dichiarazioni dei responsabili militari tese a escludere nel modo più tassativo che quel tipo di munizionamento sia mai stato impiegato nel poligono di Capo Teulada.
La puntata di "Striscia la notizia" del 20 dicembre scorso ha mandato in onda le interviste del popolare Gabibbo ad alcuni abitanti della zona, che si sono concordemente dichiarati "sicuri" dell'impiego a Capo Teulada di munizionamento a uranio impoverito: chi aveva sentito "strani scoppi", chi aveva notato "uno strano fumo nero" e chi aveva addirittura "sentito uno strano odore". Lo stesso fratello del bersagliere deceduto, il cui dolore merita il massimo rispetto, chiedeva che lo Stato riconoscesse la causa di servizio per la morte del congiunto dovuta all'incarico da lui ricoperto durante il servizio di leva: addetto al cannone da 106 senza rinculo.
Naturalmente il Gabibbo non poteva far notare che il 106 senza rinculo non può nuocere sotto questo profilo, trattandosi dell'unica arma che... non ha un proiettile perforante vero e proprio, con o senza uranio! Il funzionamento del cannone da 106, infatti, è basato sul principio della "carica cava": la perforazione della corazza si ottiene perché la particolare configurazione dell'esplosivo consente di concentrare in un unico punto valori di calore e di pressione elevatissimi. Però il Gabibbo avrebbe almeno potuto farsi venire qualche brivido ipotizzando l'ecatombe di familiari degli ufficiali e dei sottufficiali che da trent'anni abitano e lavorano all'interno della base di Capo Teulada.
Il decesso di Pintus è stato successivamente messo in relazione a un secondo decesso, avvenuto sei anni dopo, di un volontario sardo in ferma breve, peraltro mai impiegato nelle zone "a rischio".
Ai primi di gennaio del 2001 in Europa la situazione-leucemia dei "reduci" dei Balcani sembra essere la seguente: tre casi sospetti in Spagna, uno in Gran Bretagna, uno in Ungheria, uno in Grecia, uno in Germania e un deceduto per tumore in Svizzera.
Da parte sua il ministro bosniaco della sanità ha dichiarato che tra la popolazione civile i casi di tumore potrebbero essere aumentati tra il 1998 e il 1999; il condizionale è legato al fatto che i dati relativi al `98 non vengono ritenuti completi. Nell'ospedale di Pristina invece i morti di leucemia sono stati 38 nel '97 e 34 nel 2000. Sarebbe stato logico aspettarsi un aumento esponenziale delle leucemie nella popolazione che, vivendo permanentemente in quelle aree, mangia gli alimenti di origine vegetale e animale prodotti in loco.
Per quanto riguarda la "sindrome del Golfo", che certa stampa ha messo in relazione alla "sindrome dei Balcani", siamo sul piano della disinformazione totale: la prima, infatti, è legata agli effetti collaterali di un vaccino anti-nervino non sufficientemente testato somministrato ai soldati americani prima della Desert Storm contro Saddam.
È stata pressoché ignorata la dichiarazione di un oncologo cagliaritano di chiara fama, il professor Broccia, che ha sottolineato l'incompatibilità dei tempi che caratterizzano l'insorgenza e lo sviluppo delle leucemie con il tempo intercorso tra le missioni umanitarie e il manifestarsi della malattia nei sei casi verificatisi in Italia negli ultimi anni (altri cinque hanno riguardato militari mai impiegati in missioni di pace).
A questo punto sarebbe opportuno procedere almeno con buonsenso, consentendo ai tecnici (oncologi ed esperti in radiazioni) di formulare in tempi ragionevoli precise relazioni tra l'impiego dei militari nelle aree incriminate e il rischio cancerogeno. È indispensabile anche confrontare l'incidenza percentuale delle leucemie tra il personale militare con un omologo campione della popolazione civile; ove tale confronto non avvalorasse le ipotesi basate sulle paure e sui sospetti anziché sui numeri, occorrerebbe smetterla di parlare a casaccio diffondendo psicosi deleterie. Se invece emergesse una relazione tra uranio impoverito e i casi di leucemia, si imporrebbe una scelta politica: accettare il rischio oppure ritirare tutti i militari impiegati nelle missioni di pace.
Alla fin fine, se a Sarajevo musulmani e cristiani ricominciassero a spararsi o se i Serbi volessero completare la pulizia etnica intrapresa in Kosovo... perché si dovrebbe rischiare la vita di un solo Italiano, vuoi a opera dell'uranio impoverito, vuoi per mano di un cecchino, vuoi per una malattia tropicale? La stessa considerazione varrebbe se gli iracheni decidessero di riprovare a cancellare il Kuwait dalle carte geografiche e se a Timor Est un'etnia decidesse di riprendere a tagliare la gola a un'altra. Basterebbe farci il callo. I vecchi, le donne e i bambini di quelle regioni potrebbero anche essere scannati: noi continueremmo a mangiare, distogliendo tutt'al più per un attimo lo sguardo dal teleschermo, come facciamo da anni quelle poche volte in cui i telegiornali parlano di Cecenia e di Algeria.
Morale della favola: è sufficiente che a essere impoverito sia questo stramaledetto uranio, senza che lo siano anche le nostre intelligenze e le nostre coscienze; perché una cosa è occuparsi e preoccuparsi di un problema, altro è fare manfrine pre-elettorali, condite con il solito slogan «dagli all'untore americano», e frastornare I'opinione pubblica che finisce per non percepire neanche se l'istituzione militare è vittima o colpevole anche di questa "sindrome".
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