Dal welfare al workfare
I possibili scenari socio-economici futuri - dall'ipocrisia del welfare al disumano workfare State
di Ernesto Curreli
Il "Sole 24 Ore" dell'11 dicembre 1999 pubblica, in "prima", un articolo di Roberto Perotti dal titolo "Il welfare dell'ipocrisia". L'autore analizza il mercato dei lavoro e la distribuzione dei redditi in Italia, giungendo alla conclusione che il nostro Paese ha una distribuzione del reddito «più ineguale rispetto alla maggioranza dei Paesi industrializzati».
Pur in presenza di un mercato dei lavoro mantenuto rigido dalle forze politiche di governo ad apparente tutela dei lavoratori, Perotti osserva che le stesse forze hanno consolidato una spesa sociale «distribuita in modo estremamente iniquo». Servendosi di dati di fonte internazionale neutrale, compie una analisi impietosa: In Italia - il Portogallo è l'unico a farle compagnia - «i poveri ricevono meno trasferimenti sociali non-pensionistici dei ricchi». La ridistribuzione dei redditi da lavoro, per esempio, dimostra che in Gran Bretagna i trasferimenti dello Stato alle famiglie rappresentano il 300%, contro il misero 50% italiano, la percentuale più bassa d'Europa.
Analizzando poi la distribuzione pensionistica, dove l'Italia vanterebbe a prima vista la percentuale di trasferimenti più alta tra i Paesi industrializzati, rileva che in Danimarca il 20% più povero della popolazione riceve un trasferimento pensionistico del 115% rispetto al 20% più ricco, in Inghilterra la proporzione è del 60% e in Italia è di appena il 25%, anch'essa la più bassa tra i Paesi della U.E.. La fascia più debole, insomma quella che dovrebbe essere maggiormente tutelata, riceve minori trasferimenti sociali dei ricchi. La causa deriva dal fatto che «per un intreccio di interessi fra grande industria, sindacato e partiti, il sistema di sicurezza sociale italiano ha deciso di ignorare i poveri che non hanno una storia di lavoro regolare, esattamente la fascia della popolazione più vulnerabile». L'analisi giustifica così il titolo, rivelando l'ipocrisia del welfare State italiano, ossia lo "Stato del benessere sociale". Che viene alimentata, è noto, dai governi di sinistra che si sono succeduti negli ultimi anni. Ma quest'ultima è una mia osservazione.
Perotti osserva invece, freddamente e da studioso, che «si è deciso di imporre al mercato del lavoro molte rigidità, con tutte le inefficienze e disoccupazione che ne conseguono. Ma il piccolo (se esiste) guadagno in termini di eguaglianza dei salari viene completamente perso a causa di una spesa sociale estremamente iniqua che, contro ogni logica economica ed etica, dà più ai ricchi che ai poveri».
Non conosco Perotti, né le sue idee di politica economica, anche se noto con piacere che è uno dei pochi economisti che hanno il coraggio di parlare di etica anche in economia.
Ho invece il piacere e l'onore di conoscere Bruno Amoroso. Per una strana coincidenza, lo stesso giorno, l'economista, in un seminario economico tenuto all'estero, al quale partecipavo, ha sviluppato l'identico tema, che è di grande attualità considerata la disumanizzazione imposta dal liberismo nell'economia e nella politica. Il docente, di formazione dichiaratamente di sinistra, rileva che la globalizzazione dell'economia - priva di regole, sovranazionale e governata dalla grande finanza - sta imponendo un nuovo modello sociale, il workfare State (lo "Stato del lavoro") che sostituisce il welfare in termini estremamente negativi per le fasce più deboli.
Oggi chi non è nel mercato del lavoro è fuori dalla società. La grande trasformazione in atto riguarda la base stessa dei diritti individuali, che non potranno più essere assicurati dallo Stato (assistenza sociale, ospedali, istruzione, ecc.). Nel welfare il lavoro è un diritto di tutti, ma questo oramai non è più possibile nel mercato capitalistico, poiché nel Workfare è accettato soltanto il lavoro "ufficiale". Per cui i soggetti che svolgono lavori non riconosciuti (casalinghe, lavoratori precari, autonomi che non godono di riconoscimento previdenziale) sono privati di ogni assistenza, determinando con ciò la negazione stessa del vecchio Welfare. Ma questo "Stato del lavoro" che si affaccia sul nuovo millennio non è certo da confondere con lo "Stato nazionale del lavoro" propugnato dalla destra sociale. È, invece, lo "Stato del lavoro" capitalistico: se sei utile all'investimento del capitale esisti, altrimenti sei un fastidioso numero. Per lo Stato sei privo di individualità, poiché il nuovo diritto individuale viene fondato, adesso, all'interno della logica di mercato, dove è ferrea la reciprocità dell'aiuto: ti riconosco solo ciò che mi rendi. Se ti ammali, se la tua azienda fallisce al di là delle tue colpe, sei perduto. Se la finanza internazionale decide - per i propri interessi - di far scomparire in una Nazione un intero comparto economico (magari quello in cui operi) manovrando a piacimento su prezzi e mercati, allora passi immediatamente dallo stato di benessere o di mera sopravvivenza a quello della povertà e dell'indigenza.
Parlamenti e stati, ormai svuotati di un vero ruolo istituzionale rispetto al liberismo, che non può accettare vincoli o controlli nazionali e la cui logica è accolta anche dai governi neo e post comunisti, non potranno più intervenire in favore di chi cade vittima del nuovo sistema. È il workfare State, disumano quanto si vuole, ma logico e funzionale. È una concezione che presuppone la globalizzazione dell'economia, e che per il momento è dominato dalla "triade" U.S.A., Giappone e Unione Europea. Personalmente aggiungo che il Giappone, nei prossimi anni, verrà sostituito dalla Cina, che già adesso immette nel mercato mondiale una enorme quantità di prodotti di consumo, e il cui successo richiederebbe una spiegazione troppo lunga per essere qui affrontata.
Amoroso ha recentemente pubblicato un saggio sulla terminologia economica di questi anni, introducendo diversi miglioramenti e una più chiara catalogazione, ripresa anche all'estero, su vocaboli quali "globalismo", "globalizzazione", "mondializzazione" e "apartheid economico". Ma lo studioso rivela chiaramente il conflitto che oppone l'uomo (e la sua sensibilità) all'accademico (con la sua razionalità efficientista). Seguace della scuola cattolica fortemente imbevuta di contenuti marxiani di Federico Caffè, Amoroso sembra alla ricerca di una "terza via" - giammai liberista, ma neanche più "socialisteggiante" - e afferma (ho annotato rapidamente e con stupore) che l'Italia, «Senza l'intervento dello Stato fascista nelle imprese pubbliche, non sarebbe mai entrata a pieno titolo tra i Paesi industrializzati». Lo stesso è accaduto per la Spagna col regime franchista e in Portogallo con Salazar. «Senza l'intervento delle imprese a partecipazione statale - prosegue - l'Italia avrebbe ancora una struttura industriale come quella che oggi hanno i Paesi emergenti».
Attualmente, poiché vi è un effetto di training tra lo sviluppo economico capitalistico e lo sviluppo dei diritti sociali e individuali, destinati a evolversi in misura sfavorevole per i deboli che vivono nel Workfare, è necessario che la politica «riprenda il predominio sull'economia e che lo Stato introduca strategie alternative, sfruttando gli stessi trucchi della economia capitalistica per ricondurre l'Uomo al centro della vita sociale»".
Forse si ricomincia a parlare di Stato etico, di Stato sociale, di Stato che non può rimanere indifferente? È presto per poterlo affermare, ma certamente il mondo accademico internazionale (Amoroso opera principalmente all'estero ed è consulente di grandi istituzioni americane, asiatiche e mediterranee) comincia a mettere in dubbio le vecchie ricette. E, forse, la caduta del "Muro" ha determinato anche un più sereno atteggiamento valutativo per una "terza via" a noi più congeniale e che ricorda le inascoltate ma sempre più valide analisi della "nostra" destra.